La battaglia intestina (e ambientalista) di Shell
È una battaglia intestina quella che coinvolge la multinazionale petrolifera Shell, al centro di un braccio di ferro che contrappone parte degli azionisti e il consiglio d’amministrazione della società leader nella produzione e vendita del greggio.
L’organizzazione legale ambientalista ClientEarth, tra gli investitori del gigante dell’energia, ha intentato un’azione legale che tira in ballo i responsabili della società, accusati di non aver predisposto un piano d’azione per contrastare cambiamento climatico.
L’accusa lanciata al consiglio d’amministrazione è chiaro.
Il piano Powering Progress messo a punto da Shell è stato definito irragionevole perché – è l’accusa di ClientEarth – la strategia adottata dalla multinazionale non è in grado di attuare una riduzione delle emissioni in linea con gli obiettivi climatici globali di transizione energetica. Con una potenziale compromissione anche della stessa competitività dell’azienda.
A parere dell’organizzazione il mercato energetico del futuro sarà dominato da energia più economica e, soprattutto, più pulita. Muovere gli investimenti in questa direzione diviene, dunque, essenziale. Specie perché è lì che si incanala la domanda dei consumatori.
Per questo, a detta dei querelanti, l’azione del cda di Shell è illegale. Perché, scrivono, “non riesce a garantire la riduzione delle emissioni necessaria per rispettare gli obiettivi climatici globali e, invece, investe nella produzione di combustibili fossili. […] Questo mette a rischio la redditività commerciale a lungo termine dell’azienda e minaccia anche gli sforzi per proteggere il Pianeta”.
L’accusa presentata all’Alta corte contro gli undici direttori di Shell, guidati dal presidente Andrew Mackenzie, colpevoli di aver violato i loro doveri ai sensi della legge britannica, che impone di gestire adeguatamente i rischi “materiali e prevedibili” derivanti dal cambiamento climatico.
I vertici hanno respinto le accuse al mittente. L’azione dell’azienda – questa la difesa – è stata in linea con i doveri legali, fermo restando che la policy della multinazionale è stata tarata sulle richieste e gli obiettivi contenuti nell’accordo di Parigi.
Una versione che è stata però smentita da alcuni contenziosi che hanno visto protagonista la multinazionale petrolifera.
Come la sentenza storica, emessa dal tribunale dell’Aia, che ha obbligato l’azienda a ridurre le emissioni di CO2 del 45%, rispetto ai livelli del 2019, entro il 2030, accogliendo il ricorso presentato dal ramo locale dell’associazione ambientalista Friends of the Earth insieme ad altre sei Ong e oltre 17.000 cittadini.