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Signore, parliamo di soldi. E facciamolo ora

Nel libro Le signore non parlano di soldi, l’economista Azzurra Rinaldi fa luce su un grande problema: la disparità di genere ci costa tanto. In termini economici, di ingiustizia sociale e benessere
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 6 min lettura
14 febbraio 2023 Aggiornato alle 14:00

Le signore perbene non parlano di soldi. Mai.

È una regola non scritta, eppure universale ed eterna come se fosse scolpita nella pietra.

Perché “non sta bene”, perché “è volgare”, perché il denaro, si sa, è una cosa da maschi.

Eppure, di soldi dovremmo parlare. Perché se iniziassimo a farlo capiremmo quanto ci costa avere ancora “cose da maschi” e “cose da femmine”, soprattutto quando queste “cose” sono opportunità professionali, trattamenti salariali, approccio alla genitorialità, indipendenza economica. E, forse, sapremmo dire basta una volta per tutte.

A quanto ammonti questo “quanto” ce lo dice, nero su bianco, l’economista femminista, docente e direttrice della School of Gender Economics dell’Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza Azzurra Rinaldi in Le Signore non parlano di soldi. Quanto ci costa la disparità di genere, da pochissimo in libreria per Fabbri Editore (223 p. 16,50 euro).

Un libro in cui a parlare più che l’autrice sono i dati. Tanti dati - del resto, è nel campo dell’economia che ci muoviamo - accurati e puntuali e che, invece che rendere la lettura ostica per i meno addetti ai lavori, rendono lampante e cristallino cosa sia quel gender gap che in ogni campo trattiene le donne un passo (o molti passi) indietro.

I dati della disuguaglianza

Vediamone alcuni. A livello globale, il 75% del lavoro di cura non retribuito è sulle spalle delle donne: non c’è un luogo, neanche uno in tutto il Pianeta, in cui siano gli uomini a dedicarvi una porzione maggiore del loro tempo.

Dei 101.000 posti di lavoro persi nell’annus pandemicus 2020, 99.000 erano occupati da lavoratrici. Le donne che lavorano nel mondo sono il 47,6%. Nel 1990, erano il 51,2%. Sì, invece di aumentare, sono sempre di meno.

Con la genitorialità, il tasso delle donne che lavorano scende quasi del 5%, quegli degli uomini sale di quasi 10 punti percentuali. Le mamme subiscono la childhood penalty, mentre il paternity bonus spinge i papà ancora più su, dove le donne non arrivano. Solo il 5% dei Ceo è donna. Le donne sono la maggioranza dei laureati e dei dottorandi, ma solo il 25% arriva alla cattedra ordinaria in Università.

Nel corso della vita, la disparità salariale tra uomini e donne è di circa 172,300 miliardi di dollari. Due volte il Pil mondiale.

Potremmo continuare a lungo - e Rinaldi lo fa, mostrando la pervasività della disuguaglianza - ma questi dati sono sufficienti per dipingere un quadro che non vorremmo, e non dovremmo, vedere più.

Alcuni li conoscevamo già, altri li scopriamo dolorosamente per la prima volta. A fare davvero la differenza, però, è vederli tutto uno accanto all’altro, come perle di un rosario di disuguaglianze e ingiustizie.

Sì, ma quanto ci costa?

Parliamo di perle molto costose. Non solo per le donne, il cui lavoro non retribuito vale 11.000 miliardi di dollari (sì, undicimila miliardi), oltre al prezzo - inquantificabile - di dover abbandonare sogni, aspirazioni e persino la possibilità di immaginarsi in modo diverso. A pagare il conto salatissimo della disparità di genere, però, sono anche gli uomini, e la società tutta.

La parità di genere, per dirla in soldoni e rimanere in tema economico, conviene: aumenta la produttività, la diversità economica e persino il famigerato Pil, oltre al fatturato delle aziende che hanno una distribuzione più equilibrata dei generi in ruoli manageriali.

Se non vogliamo farlo per senso del diritto, di giustizia e di empatia, facciamolo almeno per egoismo, uno dei tratti caratteristico di quel “sociopatico narcisista” che è l’homo oeconomicus dalla cui decostruzione, ci dice Rinaldi, passa la strada per il superamento del capitalismo e, conseguentemente, dell’altra faccia della sua medaglia: il patriarcato.

Facciamolo pensando ai nostri biechi interessi, al nostro portafoglio colpito, alle infinite possibilità perse dal nostro Paese e da tutti i Paesi per questa insensata ostentazione nel voler mantenere in vita un modello che non conviene a nessuno.

Ripartire

E facciamolo insieme. Questo, dice Rinaldi nella primissima riga, è un libro femminista. E il femminismo – all’opposto del patriarcato – fa bene a tutti, uomini e donne.

Donne che no, non sono “le più grandi nemiche delle donne”. Smettiamo di dirlo, smettiamo di crederci, rifiutiamo una volta per tutte quello di cui hanno voluto convincerci – divide et impera, direbbe qualcuno – abbracciamo l’arma più potente che abbiamo in questa lotta, a cui non a caso è dedicato un intero capitolo del libro: la sorellanza. Smettiamola di avere paura di dirci femministe per timore di disturbare gli altri, dice Rinaldi, scrolliamoci di dosso l’idea della femminista sciatta e misandrica e iniziamo a dirci femministe, e sorelle.

Riappropriamoci. Degli spazi negati della rappresentanza. Del linguaggio, di noi stesse, della nostra indipendenza, anche economica. L’amministrazione del denaro, del patrimonio - che con il patriarcato condivide ironicamente la radice etimologica pater - l’accesso al credito, la possibilità di parlare di soldi o la capacità di contrattare un salario o l’aumento, sono tutti tasselli di una nuova e necessaria liberazione. Liberazione anche dalla violenza, quella violenza economica di cui troppo poco si parla ma che è una delle forme più subdole della violenza di genere.

Economia? Bleah! O no?

Questo libro non è solo un viaggio dentro il gender gap economico e professionale. È anche – e soprattutto – un invito a cambiare le cose, e a farlo ora. Perché donne e ragazze non possono più aspettare.

Siamo abituate a pensare l’economia come una cosa astratta, pesante e incomprensibile, soprattutto se siamo donne. Ce lo hanno ripetuto per anni, che quello è il dominio del maschio e che noi, poverine, non è colpa nostra ma proprio non ci arriviamo.

Oltre a ricordarci quanto questo non sia altro che l’ennesimo stereotipo, queste pagine ci danno il senso più profondo della risposta alla domanda “ma a cosa ci serve l’economia?”.

A capire come plasma la società in cui viviamo, alimentandone squilibri o - se fossimo capaci di ripensare il sistema e gli indicatori che utilizziamo per misurarne il benessere (sì, Pil, parliamo di te) e ripensarci (come cittadini, lavoratori e consumatori) in un’ottica di uguaglianza e sostenibilità - iniziando, finalmente, a bilanciarli.

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