Culture

Sanremo: buona la seconda?

Più sottotono rispetto all’esordio, ieri sera il Festival è stato all’insegna dei diritti. Prima grazie all’attivista italo-iraniana Pegah Moshir Pour e Drusilla Foer, poi con Fagnani e il suo monologo dedicato alle carceri
Credit: raiplay.it
Alessia Ferri
Alessia Ferri giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
9 febbraio 2023 Aggiornato alle 11:25

«A volte anch’io sparo cazzate ai quattro venti ma non lo faccio a spese dei contribuenti». Ritorno a Sanremo col botto per Fedez che, dopo il famoso concerto del 1 maggio 2021, si era tenuto debitamente a distanza dalla tv di Stato. Probabilmente anche per volere dei vertici che, forse, si erano convinti che alla fine, col passare del tempo, il suo ardore si fosse spento.

Il ritorno di Fedez in Rai

Mai valutazione fu più sbagliata visto che quella che doveva essere un’esibizione marginale sulla nave Costa, sponsor della kermesse, si è trasformata nell’evento più commentato della serata, che a onor del vero è stata decisamente soporifera rispetto a quella d’esordio.

Grazie dunque Fedez per averci svegliati dal divano, e soprattutto per aver ricordato a tutti quali sono gli scandali e quali no. Lafamiglia reale italiana”, i Ferragnez, può piacere o meno ma è indubbio che sia venuta a Sanremo per far parlare di sé, oltre che delle istanze che porta avanti, e che per il momento ci sia riuscita alla grande. Prima di Fedez, gli unici acuti di un serata sottotono erano state le parentesi dedicate ai diritti.

Solidarietà per le donne iraniane

Si è parlato di Iran con un discorso molto toccante che ha visto l’attivista italiana di origini iraniane Pegah Moshir Pour «nata con i racconti del Libro dei Re, cresciuta con i versi della Divina Commedia» slegarsi i capelli per mostrare solidarietà con le tante donne - ma anche uomini - che da settembre sono stati imprigionati o uccisi dalla polizia morale, per aver manifestato per la libertà e rivendicato la morte di Mahsa Amini.

L’attivista ha parlato di paradiso, citando la parola persiana pardis che significa giardino segreto: nel chiedersi se il suo popolo riuscirà mai a riappropriarsi del proprio paradiso, ha spianato la strada all’ingresso di Drusilla Foer, che ha poi intonato con lei Baraye, la canzone diventata l’inno della rivoluzione, scritta da Shervin Hajipour musicando i tweet dei ragazzi sulle libertà negate.

Pochi giorni fa il brano ha vinto un Grammy, a testimonianza di come la musica molto spesso sia lo strumento più potente di tutti. Lo sanno bene al Festival, che poco prima aveva calato l’asso - anzi gli assi - della musica italiana, almeno quella di un tempo, con il trio Massimo Ranieri, Al Bano e Gianni Morandi, quest’ultimo salvo dall’effetto nostalgia perché, come si diceva un tempo, piace alle mamme, alle nonne e alle nipoti.

Il monologo sulle carceri

Non è mancato ovviamente il monologo che Sanremo concepisce quasi come una tassa da pagare per le donne all’Ariston che, a differenza degli uomini ai quali nulla di extra rispetto alla loro capacità di presentare è richiesto, per legittimare la loro presenza sembra debbano portare il tema delle elementari e dimostrazione che se sono lì è perché sono davvero brave e qualcosa sanno fare/dire.

Fortunatamente il compito ieri è toccato a Francesca Fagnani, che ha fatto vedere al pubblico cosa sia un monologo ben scritto. Il tema era di quelli difficilissimi ma attualissimi, il carcere. La giornalista ha portato sul palco le parole dei ragazzi del Nisida, Napoli, che tra speranze e finta sicurezza trascorrono le giornate tra 4 mura troppo opprimenti per i sogni di quell’età.

Fingono spavalderia sostenendo di non piangere mai, salvo poi farlo alla vista del padre, e dicono di non aver paura nemmeno durante una rapina perché «chi fa le cose per rabbia non ha paura». «Hanno 15 anni e gli occhi pieni di vuoto» spiega Francesca Fagnani, sottolineando quanto sia ingiusto vederli lì e ricordando come in Italia la prigione serva solo a punire il colpevole e non provi quasi mai a rendere chi esce migliore rispetto a quando è entrato.

Questo vale per i ragazzi ma anche per gli adulti, anch’essi stretti nella morsa di un sistema carcerario che li dimentica, escludendoli alla vista della società e che tutta Europa ci chiede da anni di migliorare.

Impossibile ascoltare le parole di Fagnani e non pensare alla vicenda Cospito, mai nominato ma fortemente presente; così come a Stefano Cucchi e ai tanti detenuti che negli istituti penitenziari del nostro Paese hanno conosciuto la violenza e, in alcuni casi, la morte.

Cita senza nominarlo il Procuratore della Repubblica Nicola Gratteri, che avrebbe detto di essere contrario a uno schiaffo in carcere o in caserma per non far passare il detenuto da vittima, al quale ribatte «un detenuto non va picchiato perché lo Stato non può applicare le leggi della sopraffazione e della violenza».

E poi la scuola, individuata come unico strumento per evitare che altri giovani pensino di non avere alternative se non delinquere e finire dietro le sbarre; e lo Stato, troppo spesso assente, ma che invece «dovrebbe essere più sexy dell’illegalità».

Temi forti e importanti che hanno reso la serata sicuramente intensa ma meno frizzante della prima. Amadeus ci ha provato sul finale a risollevarla, buttando sul palco Angelo Duro con un monologo a tratti imbarazzante, a tratti sessista, a tratti non si capisce.

Meno male che ci hanno pensato gli Articolo 31, ma ancora di più Paola e Chiara, a portare una ventata di energia sul palco e a ribadire come la vita, molto spesso, sia tutta una questione di Furore.

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