Fermate Bolsonaro, per il futuro del Pianeta
Pensavamo che Donald Trump fosse il supercattivo del cambiamento climatico. Nei 4 anni di presidenza degli Stati Uniti è uscito dall’accordo di Parigi, ha concesso trivellazioni ovunque, dato lo stop ai regolamenti su inquinanti ed emissioni, cancellato parchi naturali.
Sembrava un incubo, ci sbagliavamo.
Jair Messias Bolsonaro, bigotto e reazionario presidente del Brasile, sostenuto dalla destra pentecostale e dai potenti dell’agrobusiness, come Aprosoja MT, ha sorpassato il suo modello nordamericano. Secondo Greenpeace, da quando Bolsonaro è salito al Palácio, nel 2019 “la deforestazione amazzonica è aumentata del 75,6%, gli allarmi per gli incendi forestali sono cresciuti del 24% e le emissioni di gas serra del Paese sudamericano sono aumentate del 9,5%”. Nemmeno il Covid – che in Brasile ha falciato 624.000 vite – ha rallentato la devastazione.
Il dato non è inatteso ma lascia comunque allibiti. È peggio di quanto ci si aspettasse anche dalle proiezioni più fosche. La devastazione amazzonica è innanzitutto un danno fondamentale alla sfida globale del cambiamento climatico. Nel solo 2020 il Brasile ha emesso complessivamente 2,16 miliardi di tonnellate di anidride carbonica. Un balzo indietro di 14 anni nella sfida climatica, stando ai dati raccolti dal Greenhouse Gas Emissions and Removals Estimating System, un osservatorio sul clima brasiliano.
L’incremento della deforestazione significa anche un colpo terribile alla grande biodiversità di quelle terre, con ecosistemi preziosi per la salute del Pianeta, e ai popoli indigeni, che svolgono un ruolo fondamentale di tutela di questo immenso patrimonio naturale. Popolazioni vessate che spesso pagano anche con la vita. Sono ben 20 gli attivisti per l’ambiente uccisi nel solo 2020, quasi tutti in territorio amazzonico, stando ai dati di Global Witness. Omicidi spesso irrisolti, occultati dall’omertà della polizia.
La distruzione dell’Amazzonia e le politiche incendiarie di Bolsonaro sono anche un danno all’economia, con sempre più aziende danneggiate nella reputazione internazionale, al punto che recentemente un cartello di produttori di prodotti agroalimentari e chimici ha firmato un manifesto contro lo stesso Bolsonaro.
Il Brasile non è certo una dittatura, né un governo autoritario come la Russia o l’Arabia Saudita. Jairo, come lo chiamano i sostenitori, è stato eletto dal popolo, sovrano nei suoi territori. Eppure la gravità della devastazione in Brasile ci pone davanti a una domanda estremamente difficile, quanto controversa. Quando le Nazioni Unite o l’Europa possono decidere di agire politicamente sullo scacchiere internazionale, al pari di come avviene per i genocidi o le violazioni diffuse dei diritti umani, agendo con dure sanzioni nei confronti di un Paese che commette ecocidio?
Ibama, l’agenzia federale per l’ambiente e le risorse naturali brasiliana, ha il potere di sanzionare coloro che deforestano illegalmente con multe, confisca dei mezzi di produzione e embargo sulle proprietà private. Certo sotto Bolsonaro ha smesso in larga parte di fare tutto ciò. Ma come un’ agenzia federale ha il potere di sanzionare chi commette un ecoreato, la comunità internazionale potrebbe impugnare sanzioni internazionali contro un paese reo di devastazione.
Greenpeace ha chiesto a esempio alla EU di sanzionare gli scambi commerciali con il Brasile e bloccare l’accordo commerciale Ue-Mercosur, che “rischia di inondare il mercato europeo di prodotti legati alla deforestazione e alla violazione dei diritti umani, come la carne, favorendo settori che aggravano la crisi climatica”.
Ma si può fare di più, imponendo un vero proprio embargo o dure sanzioni commerciali o politiche? È un argomento che negli ambienti diplomatici e nel mondo delle associazioni ambientaliste si inizia a discutere. Ma la paura per i diplomatici è che un interventismo internazionale si possa ritorcere contro. Sarebbe possibile sanzionare gli USA se non riescono a raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione proposti all’interno dell’Accordo di Parigi, qualora venga eletto nel 2024 un delfino di Trump? O sanzionare la Cina che fatica a calare il XIV piano quinquennale a livello provinciale e rimane fortemente orientata all’uso del carbone?
Ad una raccolta firme del 2019 per imporre sanzioni al Brasile, con 200.000 adesioni il governo inglese ha dovuto rispondere ufficialmente “che riteniamo che questi problemi [la deforestazione, ndr] possano essere affrontati in modo più efficace attraverso il dialogo e programmi bilaterali”.
Indubbiamente, per evitare ulteriori escalation politiche è meglio favorire un approccio di cooperazione da colombe a un approccio più da falchi. Cooperazione allo sviluppo, scambio di conoscenze, ma anche maggiore presenza della diplomazia sui temi ambientali, sempre lasciati in secondo piano rispetto agli interessi economici nazionali. Dimenticando che l’ambiente globale è un interesse strategico di ogni nazione.
Un altro passo importante è quello di sostenere un’internazionale ecologista, che vada al sostegno di candidati di opposizione o partiti politici che possano contrastare Presidenti e Capi di Stato particolarmente pericolosi. Oppure basta avere fiducia della cittadinanza laddove può esprimersi liberamente? A ottobre si voterà in Brasile per sostituire Jair Bolsonaro, al momento sfavorito contro il contendente Lula da Silva. Tornerà il vento a favore e saprà Lula fermare la devastazione amazzonica? Sono discorsi che addetti ai lavori, cittadini e politica devono inevitabilmente affrontare, così come diviene fondamentale sostenere un diritto umano globale all’ambiente.