Ambiente

Il freddo ci salverà dallo spreco alimentare?

Ogni anno 1,6 miliardi di tonnellate di cibo vengono cestinate perché mal conservate. Il Ruanda, però, ha escogitato un piano che potrebbe risolvere il problema. Grazie alla cold chain
Credit: davisuko
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15 marzo 2023 Aggiornato alle 08:00

Secondo i dati rilasciati dall’International Institute of Refrigeration, ogni anno nel mondo vengono cestinate 1,6 miliardi di tonnellate di cibo, una quantità sufficiente a sfamare 950 milioni di persone.

Circa il 30% di tutte le risorse alimentari sprecate potrebbero essere salvate grazie alla cold chain (la catena del freddo), ovvero la serie di infrastrutture che consente di mantenere i cibi a temperature controllate durante tutta la filiera produttiva.

Può sembrare un’inezia ma c’è una differenza enorme tra il portare un ortaggio appena raccolto a basse temperature entro due ore o dieci ore. Un’attesa troppo lunga dà il via a processi organici che portano i cibi a marcire più in fretta e a perdere le loro proprietà nutritive.

Il fattore tempo è ancora più importante nel caso di prodotti più delicati e quindi più facilmente degradabili, come il latte o il pesce.

Perché la cold chain sia efficiente servono impianti di refrigerazione per lo stoccaggio del cibo in partenza e in arrivo sui mercati, ma anche il controllo costante durante il trasporto. Questo aspetto è particolarmente importante in quei Paesi dove le infrastrutture stradali sono più deboli e precarie e quindi serve più tempo per coprire anche brevi distanze.

I problemi che derivano dall’assenza o dall’inefficienza della cold chain sono di natura sanitaria e nutrizionale per via del deterioramento e della perdita delle proprietà organolettiche del cibo, ma anche (e soprattutto) economiche.

Secondo un reportage nel New Yorker ben il 35% del latte che gli allevatori ruandesi portano faticosamente in bicicletta al mercato di Kigali, spesso pedalando per ore su strade dissestate, arriva già deteriorato e non adatto alla vendita.

Lo stesso accade per il pesce pescato da pescatori congolesi che non può venire subito messo in casse piene di ghiaccio e alla fine della giornata deve essere svenduto per pochi centesimi.

Si stima che tra il 30 e il 50% di tutto il cibo prodotto nei Paesi emergenti rimanga invenduto e vada buttato a causa dell’inefficienza, o della totale mancanza, della cold chain. L’abbassamento della qualità rende inoltre la produzione inadatta all’esportazione con conseguenti ulteriori perdite economiche, dal momento che la vendita sui mercati internazionali può essere fatta a prezzi più alti che quella sui mercati locali.

L’Africa è il continente più colpito dalla mancanza di infrastrutture di refrigerazione.

Secondo la Global Cold Chain Alliance (Gcca) ben il 50% di tutto il cibo prodotto nel continente viene buttato a causa della cattiva conservazione. Se consideriamo che solo nell’Africa Subsahariana il 60% della popolazione è costituita da piccoli agricoltori non è difficile capire come la mancanza della cold chain impedisca lo sviluppo di un enorme potenziale economico.

I due più grandi ostacoli all’implementazione della catena del freddo nel continente sono l’alto costo delle infrastrutture e la scarsità della rete elettrica.

Il costo dell’elettricità, l’inaffidabilità della fornitura pubblica - soggetta a down molto frequenti - e il mancato raggiungimento delle aree rurali più remote rende praticamente impossibile l’implementazione di una filiera di conservazione e refrigerazione efficiente. Per contro la costruzione di sistemi inefficaci comporta un’enorme spreco di risorse energetiche.

Secondo Carsten Thorsen, Ceo dell’impresa di costruzioni danese CT-Technologies, con l’eccezione del Sud Africa, nel continente mancano materiali e componenti per i sistemi di refrigerazione.

Servirebbero strutture prefabbricate e autosufficienti che possano funzionare nonostante gli ostacoli rappresentati dalla precarietà della rete dei trasporti, dai dazi e dalla burocrazia inter e intra statale.

Nella visione di Thorsen questi sistemi non dovrebbero essere una copia esatta di quelli europee o statunitensi, ma dovrebbero essere costruiti ad hoc per il mercato africano, tenendo conto dell’expertise della manodopera che dovrà gestirli. Il rischio altrimenti è quello di costruire cattedrali del deserto che però non servono a nessuno.

Una delle possibili soluzioni per superare i costi dell’energia è l’utilizzo dei pannelli solari, una tecnologia che però richiede un alto livello di investimento iniziale.

Attualmente, secondo il Gcca, si sta tentando di implementare anche il raffreddamento ad ammoniaca, un sistema molto più efficiente di quello al freon e che consentirebbe un risparmio energetico tra il 30 e il 40%.

Tuttavia questo metodo non può essere usato a livello commerciale, a causa dell’incompatibilità di materiali, del rischio di infiammabilità e della tossicità dei composti. Anche a livello industriale va utilizzato sotto una stretta regolamentazione e non è sempre possibile e sicuro farlo in prossimità di centri abitati.

Nel 2018 il Ruanda è stato il primo Paese dell’Africa Subsahariana a muoversi per implementare la propria cold chain lanciando la National cooling strategy, e nel 2020 ha aperto l’African Center of Excellence for Sustainable Cooling and Cold Chain, in partnership con il Governo britannico, con diverse università e con il programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente con l’obiettivo di promuovere programmi di ricerca e sviluppo.

Per il 2023 è prevista l’apertura di un sofisticato laboratorio per lo studio della conservazione del cibo e per testare le ultime tecnologie in materia di refrigerazione.

Il centro potrebbe diventare un vero e proprio polo di formazione e aggregazione di esperti africani e stranieri, e rappresenta un importante punto di partenza verso la costruzione di cold chain efficienti ed efficaci anche in altri Paesi del continente.

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