Ambiente

Vestire usato per essere alla moda (non per bisogno)

La gentrificazione del vintage e le app digitali per vendere second hand hanno trasformato questi capi in abiti ricercatissimi. Praticamente nuovi, ma a prezzi stracciati. Chi ne soffre sono le persone più povere
Credit: Ivan Oboleninov
Tempo di lettura 8 min lettura
2 febbraio 2023 Aggiornato alle 06:30

Shimokitazawa è un quartiere leggero. Le vie seguono la cadenza delle passeggiate, srotolandosi in saliscendi dai pendii delicati. Non c’è frenesia, non nella prima metà della giornata. I negozi aprono pigramente, con lentezza. I manichini si sporgono dalle vetrine aperte, indossando giacche e maglioni dal taglio morbido. È quasi difficile scegliere in che negozio entrare. Sin dall’ingresso, si ha la sensazione di essere avvolti, di stare camminando in un - curatissimo - armadio di casa, con l’odore della polvere e la gentilezza di commessi e negozianti che danno il benvenuto. Non sorprende che Banana Yoshimoto ci abbia ambientato il suo Moshi Moshi.

Ho ancora in mano la tazza del caffè, perché a Tokyo mancano sempre i cestini. Dopo l’attentato in metropolitana del 2005, il comune ha deciso di rimuoverli in quanto potenziali luoghi di collocamento di ordigni. Quindi, camminare con un oggetto monouso, significa portarselo appresso almeno fino al rientro in ufficio o a casa. Il peso del rifiuto si sente diversamente quando diventa compagno vuoto per ore.

Mentre sfoglio i maglioni e gli abiti appesi, provo i cappelli e i pantaloni di panno pesante e sbircio i vestiti in velluto noto i cartellini dei prezzi. Alti. Decisamente alti. Non ho bisogno di nulla, perciò esco. La strada, di ora in ora, si riempie. Ma è nel pomeriggio che straripa di persone e sacchetti, gonfi al punto da sembrare prossimi all’esplosione.

Credit: Martina Miccichè

Sono giovani, quelli che animano Shimokitazawa, giovani che camminano in abiti simili, fanno acquisiti impercettibilmente uguali tra un negozio e l’altro, a prezzi stupefacenti. Sono ben vestiti, mi vien da pensare, hanno un senso dell’estetica raffinato e sinistramente omogeneo a tutti quelli che li circondano. I maglioni, il calore dell’armadio di casa, i toni autunnali, d’improvviso smettono di essere accoglienti. Perché sebbene il quartiere sia intarsiato di caffetterie e insegne peculiari di piccoli negozi, sembra di stare in un mega store. Il vintage è stato assorbito dal mercato, inserito in un circolo pericolosamente affine a quello del fast fashion, integrato nei canoni dell’iperconsumo standardizzato.

I prezzi, qui, come in altri negozi vintage milanesi, non sono coerenti con il mercato dell’usato. E non si tratta solo di quei capi d’abbigliamento che possono avere un certo valore per lavorazione, marchio o periodo di produzione, ma bensì di una tendenza. Comprare usato ormai è moda, una nuova moda, che sfrutta la nuova cultura del riuso per ottenere un margine di guadagno notevole, oserei dire incoerente con la natura dell’usato. Che infatti non riesce più a essere una risorsa. Con prezzi non accessibili a tutte le fasce di reddito, il mercato del vintage non rispecchia più i canoni di necessità.

Credit: Saverio Nichetti

La gentrificazione del vintage ha trasformato l’usato in un nuovo status symbol, a discapito di chi necessita di acquistare abiti usati a prezzi ragionevoli. La differenza tra vezzo e necessità si legge facilmente tra le pieghe delle varie applicazioni che vendono second hand. App che mettono in contatto venditori e acquirenti a costo apparentemente nullo. Di fatto, sono applicazioni che “connettono”, creando il punto di contatto tra diversi tipi di user. La microimprenditorialità da schermo spinge sempre più utenti a navigare le forme della vendita digitale per racimolare soldi, liberare spazi o fare acquisti a prezzi convenienti.

La piattaformizzazione però, svolge un secondo ruolo, non marginale. Essa infatti estrae tempo e interazioni semi-social, per incanalarle in un nuovo comportamento di consumo compulsivo. E infatti, i brand che più spesso compaiono nello spazio dedicato alle descrizioni dei prodotti sono i colossi del fast fashion.

I prodotti sono in ottimo stato, sembrano mai messi. Osservo i risultati restituiti dalla ricerca “crop top bianco maniche corte”. Li apro quasi tutti, in cerca di un normale segno di usura: l’alone opaco del sudore nell’incavo ascellare. Non ce n’è nemmeno traccia. Mi concentro allora sugli scolli, per vedere se hanno perso la consistenza della forma. Precisi e al loro posto. Pur essendo tutti capi prodotti con materiale derivato dal petrolio, cuciti a velocità straordinarie e trasportati per lunghi periodi, non mostrano segni di usura. Peccato che questi tessuti non siano così performanti e resistenti alla prova del tempo.

La verità è che questi vestiti sono stati usati poco e niente. E dunque, sono venduti a prezzi bassi - coerenti con il minimo impegno economico derivato dall’acquisto nel settore del fast fashion - dopo pochi utilizzi, o peggio nessuno. Nel mentre, generano l’illusione di un risparmio, producendo un rientro che si tramuta presto in un incentivo a comprare di nuovo, di più, a prezzi minori. Così, queste applicazioni assistono, volenti o nolenti, il mercato del fast fashion. La forza di queste app deriva dall’immagine che hanno saputo dare dell’usato.

Credit: Martina Micciché
Credit: Martina Micciché

Indossare abiti usati, fino a qualche tempo fa, era un’onta e una vergogna sociale. Chi ne aveva bisogno lo faceva, senza tanto sbandierarlo, perché era sintomo di povertà. I millennial stessi, ora grandi amanti del pre-loved, sono stati educati all’acquisto come forma di piacere ed espressione di benessere.

La gen z, che sta crescendo con la consapevolezza che il loro mondo è destinato alla rovina, invece, ha subito una duplice spinta, quella all’acquisto compulsivo e quella all’attenzione verso il Pianeta. Nel mezzo, è subentrata la capacità delle aziende di costruire elaborati programmi di marketing imperniati su green e social washing di sorta, producendo capsule collection “eco-friendly” e sguazzando nella vaghezza del termine.

Le necessità ambientali e sociali stanno svolgendo un grande e costante lavoro di risignificazione, spingendo le generazioni nate dagli anni ‘80 in poi a rivalutare la moda dell’usato. Nomenclature ed eufemismi invitanti hanno progressivamente trasformato la nostra percezione di cosa sia il vestiario usato. E se questo ha un effetto estremamente positivo, perché evita che i nostri capi di abbigliamento finiscano a riempire le discariche del Sud del mondo, è pur sempre problematico per via del suo legame con comportamenti di consumo costanti.

Una relazione dissociata, basata sul piacere chimico - quando effettuiamo un acquisto il nostro cervello rilascia effettivamente una dose di dopamina ed endorfine - derivato dalla transazione economica e dal senso del “nuovo” e incentivata dalla pressione sociale di dover apparire in un certo qual modo, seguendo un codice specifico di abbigliamento coerente con i dettami del tempo.

Credit: Martina Miccichè

La compulsività e la dipendenza da shopping appaiono sempre come qualcosa di lontano, ma riguardano la maggior parte delle persone che conosciamo. Comprare per gusto e non per bisogno, per passione e non per necessità, per esprimere e non per vestire, sono azioni quotidiane e diffuse, comuni alla maggior parte delle persone che hanno un reddito stabile, per quanto ridotto.

Addirittura, ricordo che quando ero adolescente, l’essere shopaholic era considerato un complimento, un indicatore di benessere e abilità nel vestire degno di ammirazione. Lo shopping come hobby era un’ambizione.

Ora, con l’applicazione di compravendita dell’usato aperta sotto le dita e l’ennesimo top fast fashion venduto al prezzo di un singolo euro, non posso che spaventarmi. La facilità con cui potrei averlo, pur sapendo - grazie a Google - che quel top è uscito in collezione poche settimane fa e che non sarà stato usato più di un paio di volte, è disarmante. Basterebbe un click su “acquista”.

Credit: Saverio Nichetti

L’usato, chiamato vintage, pre-loved o pre-owned - per non schifare chi è stato socializzato a considerare l’usato come una prerogativa delle fasce di reddito più basse o, peggio, come un’espressione del proprio valore derivato dal reddito - è stato innestato nel carosello dell’iperconsumo. Peggio ancora, è stato elevato a nuovo elemento di moda, di ricerca e di consumo.

Negozi con i nomi intarsiati al neon, con uno stile preciso e prezzi che difficilmente permettono di comprare un maglione di qualità a meno di 50 euro, stanno punteggiando le città. Cercano lo spazio di Milano, la città della moda. Affollano quartieri, come Shimokitazawa. E cambiano il valore di mercato dei vestiti usati. Li rendono costosi e inaccessibili.

Un circolo vizioso, pericoloso, innescato dalla gentrificazione del vintage e dalla sua piattaformizzazione.

Credit: Saverio Nichetti
Credit: Saverio Nichetti

L’usato è la nostra risorsa per ridurre i rifiuti e gli sprechi, il nostro margine per imparare a razionalizzare i consumi e prediligere la qualità invece della forma o della frequenza. Perché questa possibilità si realizzi, però, dovremmo iniziare a cambiare l’idea dell’acquisto come piacere in rimedio a una necessità reale. Una rieducazione individuale e collettiva ci permetterebbe di smettere di cercare nuovi escamotage per continuare a consumare, impoverire ed espellere.

Credit: Saverio Nichetti

Così, infilandomi in un cafè a Shimokitazawa mi fermo a osservare tutti quei cappotti simili, chiedendomi come sia anche solo possibile che in una via con almeno 30 esercizi commerciali, siano disponibili maglioni con le medesime fantasie, giacche tutte uguali e jeans dello stesso brand e dello stesso modello venduti allo stesso prezzo. Mi rispondo facilmente. Non si tratta di comprare abiti usati, ma di comprare abiti seguendo la tendenza dell’usato.

E sicché ogni moda è passeggera, mi chiedo se al prossimo cambio di direzione impareremo finalmente a smettere di consumare tutto. Comprese le buone idee.

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