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Arrotolo - ossessivamente – vestiti da 3 anni. E ora Marie Kondo cambia idea?

Dopo aver a lungo combattuto il disordine domestico grazie al metodo giapponese, la diva Marie se ne esce dicendo che «ha un po’ rinunciato» all’ordine. Forse, però, ha ragione
Credit: Via instagram.com @mariekondo
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1 febbraio 2023 Aggiornato alle 06:30

Ogni volta che apro l’armadio dove teniamo gli asciugamani, loro sono là che mi guardano.

Chino il capo, introduco fugacemente una mano sperando di pescarne tre dello stesso colore e chiudo velocemente le ante.

Quell’armadio è uno dei miei grandi insuccessi nella sacra via targata Marie Kondo, la signora giapponese che ha preteso per qualche anno di insegnare a tutti noi come tenere in ordine la casa, avere cassetti nei quali i vestiti sono disposti maniacalmente, gettare tutto ciò che “non ci rende felici” (tipo noi stessi?).

Arrotolo ossessivamente vestiti da circa tre anni, da quando ho letto qualche pagina dall’estratto del suo libro su Kindle e dopo essermi sciroppato decine di tutorial di vario genere basati sulla sua disciplina.

Ho iniziato dalle magliette, che a tutt’oggi sono in due cassetti, tutte affiancate, piegate nella forma del tipico rotolino, disposte come vi aspettereste di trovarle nella casa di un serial killer.

Sono passato ai pantaloni, più facili. Poi le lenzuola. Per quelle con gli angoli c’è un tecnica tutta particolare (angolo esterno su angolo esterno, angolo interno su angolo interno) che, giudizio personale, va ripetuta almeno un centinaio di volte per essere considerata efficiente: in genere si rischia di finire incaramellati. Infine gli asciugamani.

Ho appreso che posso non solo arrotolarli, ma anche infilare un lato nell’altro (ci vorrebbe un video tutorial, che qua non riesco) per la quale poi restano piegati anche se li usi per giocare a pallavolo in casa. E dopo i miei tre anni così, dopo aver irreggimentato milioni di persone in tutto il mondo raccontando loro che la casa perfetta è possibile, la diva Marie se ne esce dicendo che «ha un po’ rinunciato» all’ordine, «ma per me è un bene».

Ci informa anche che la cosa più importante è «godere del tempo che passo a casa con i miei figli». Delusione e rabbia da una parte, ma anche un enorme sollievo. Perché alla fin fine il metodo Kondo non faceva altro che vellicare il mio senso di colpa, amplificando l’ansia da disordine, come se in una casa frequentata da due adolescenti e un ragazzino tutto possa essere sempre perfetto.

Invece tocca combattere perché i piatti vadano in lavastoviglie e non restino a marcire nel lavandino, perché la polvere non esondi, perché le loro stanze non sembrino un magazzino di vestiti nel quale è appena esplosa una granata.

Senza contare che l’altra parte della dottrina, quella che insegna a buttare quello che non ti serve o che “non ti rende felice”, non sono mai riuscito ad applicarla: un’ansia da accumulo, credo ereditata da mia madre, mi fa recuperare i pezzi di plastica dei giocattoli rotti nel cestino perché “potrebbero essere un ricordo”.

Ma poi che ne sai, Kondo, di cosa mi farà felice domani? I vestiti che indossavo quattro anni fa, quando pesavo cinque chili in più, mi fanno felice proprio perché sono troppo larghi, immettibili e ho fatto bene a non buttarli perché quando li provo mi strappano un sorriso.

Da oggi potrò guardare dentro l’armadio dove teniamo gli asciugamani, laddove sono falliti i miei sogni di ordine perché per ogni telo riposto con cura, Anna o i figli ne rimettevano dentro uno in modo tradizionale o completamente casuale.

Loro mi guarderanno, io alzerò la testa, li fisserò e come nella celebre battuta di Corrado Guzzanti potrò dire: «Asciugamano, ma io e te, che c***o se dovemo dì?».

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