Ambiente

Iraq: la siccità mette in crisi la culla dell’umanità

La portata della rete di canali, laghi e paludi del Tigri e dell’Eufrate si è ridotta del 60%. Entro il prossimo decennio, il Paese rischia di perdere un quarto dell’acqua dolce che alimenta la sua economia
Credit: EPA/ AHMED JALIL
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7 febbraio 2023 Aggiornato alle 10:00

Barche abbandonate su un fianco tra il fango degli affluenti in secca e qualche acquitrino salmastro e puzzolente.

È questo che rimane in Iraq della fitta rete di canali, paludi e laghi, formata dai fiumi Tigri ed Eufrate, che è stata la ricchezza delle civiltà antiche, dai Sumeri ai Babilonesi.

Le riserve idriche del Paese si sono infatti ridotte della metà, a causa della crisi climatica e di una gestione poco lungimirante dell’acqua dolce.

La concorrenza e gli scavi di pozzi non regolamentati stanno riaccendendo faide locali che, in un contesto sociale fragile e con una massiccia presenza di milizie armate, rischiano di sfociare in conflitti più ampi.

Secondo il Governo di Baghdad, circa un quarto dell’acqua dolce che alimenta l’economia del Paese e la vita della popolazione rischia di sparire già nel prossimo decennio.

Gli effetti del cambiamento climatico in corso però sono già visibili ora.

Per esempio, a Mosul e negli altri territori settentrionali, due anni di siccità hanno inaridito quello che un tempo era considerati il granaio dell’Iraq.

Le tempeste di sabbia sono poi diventate sempre più ricorrenti e ogni anno 40.000 ettari di coltivazioni vegetali vanno persi a causa della desertificazione.

I raccolti scarsi e le condizioni di vita sempre più difficili hanno costretto dal 2021 circa 20.000 contadini, secondo le stime dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, a spostarsi verso le grandi città, consegnando i loro campi all’incuria e, ancora una volta, alla desertificazione.

Eppure il settore agricolo è uno dei più forti dell’economia irachena: rappresenta il 3% del Pil dello Stato e impiega quasi un quinto della sua forza lavoro. Ha però bisogno di molta acqua. Infatti occupa il 65% del fabbisogno nazionale.

L’estesa rete di dighe turche che la trasporta nel Paese ha però ridotto la sua portata del 60%, mentre il vicino stato dell’Iran ha deviato gli affluenti del Tigri e dell’Eufrate. Le riserve idriche nei serbatoi inoltre si stanno assottigliando, a causa dell’evaporazione dovuta alle alte temperature.

Intanto la popolazione, che dipende dai due fiumi anche per l’approvvigionamento quotidiano di acqua potabile e per i servizi igienico-sanitari, è quasi raddoppiata negli ultimi due decenni. La carenza ha portato a un aumento della concorrenza che il Ministero deputato all’assegnazione per le irrigazioni, a Baghdad, non sta riuscendo a regolare.

A questo si devono aggiungere infrastrutture datate e una grave corruzione che avvantaggia i più abbienti.

Per esempio, gli allevatori di bufali e gli agricoltori delle paludi dove, secondo gli storici, ha avuto origine la civiltà umana, sono penalizzati a vantaggio dell’industria del riso.

Un prodotto esportato al 95% e quindi poco influente per la popolazione, che però gode di molte forniture.

Inoltre, fino agli Anni Cinquanta questo ecosistema era dotato di un microclima unico e ospitava diversi tesori della biodiversità globale.

L’industrializzazione degli anni ‘90 e la campagna di Saddam Hussein per prosciugare il labirinto di canali, che poteva proteggere gli antagonisti del regime, lo hanno messo a dura prova.

La discriminazione che ancora permane verso le campagne e le paludi, secondo Hassan al Janabi, ex ministro delle Risorse idriche ed esperto ambientale intervistato dal quotidiano britannico Guardian, sta peggiorando gli effetti, già pesantissimi, della crisi climatica sul territorio.

I mandriani locali infatti hanno perso, secondo le loro stime, circa l’80% dei bufali a causa della carenza d’acqua, perché centinaia di dighe illegali deviano l’acqua verso i terreni agricoli e gli allevamenti ittici delle persone più influenti.

Invece a Bassora, nella parte meridionale del Paese, le coltivazioni di palme sono ridotte allo stremo a causa della siccità: sono passate dal milione di piante degli Anni Settanta a meno di 100.000. Dopo il 2004, i bassi livelli del Tigri e dell’Eufrate, aggravati anche dagli impianti di deviazione di Turchia e Iran, hanno consentito all’acqua di mare del Golfo di penetrare sempre più in profondità nello Shatt al-Arab.

Nel 2018 l’acqua salata ha raggiunto persino la città e le sue case, causando gravi disordini tra gli abitanti.

Ora l’elevata salinità delle fonti irrigue sta causando la morte delle palme.

Nel 2012 lo Stato ha stanziato risarcimenti per gli agricoltori che però, dopo dieci anni, devono ancora riceverli. Neanche il progetto per la costruzione di un mega-desalinizzatore sul golfo è andato a buon fine, a causa delle tensioni e delle accuse di corruzione tra Bassora e il Governo centrale. La concorrenza per accedere all’acqua e salvare le coltivazioni intanto stanno continuando anche qui a infiammare i conflitti tra gli agricoltori.

A meno di un piano lungimirante per ridistribuire le risorse idriche e rendere la rete più efficiente, la situazione non sembra destinata a migliorare.

L’Iraq è il quinto Stato più vulnerabile al mondo per disponibilità di acqua e cibo e per temperature estreme, secondo afferma il rapporto GEO-6 pubblicato dal Programma ambientale delle Nazioni Unite. Uno scenario confermato anche dalla Banca Mondiale che prevede, entro il 2050, l’esacerbarsi delle condizioni che causano la siccità: ci sarà infatti un aumento medio di 2 gradi sul termometro e una diminuzione delle precipitazioni del 9%.

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