Economia

Da Opzione Donna a Opzione Danno?

La riforma del Governo stringe la cerchia delle aventi diritto: per Cgil, saranno appena 870. Il gender gap nelle pensioni è realtà: secondo l’Inps, il divario medio degli assegni tra uomini e donne è del 30%
Tempo di lettura 6 min lettura
10 marzo 2023 Aggiornato alle 20:00

Uomini e donne guadagnano in modo diverso, si inseriscono diversamente all’interno del mondo lavorativo e ne escono, ancora una volta, con modalità e retribuzioni differenti. L’ultimo bollettino Inps stima un divario medio degli assegni pensionistici tra uomini e donne del 30%, ovvero rispettivamente di circa 1.381 euro e 976 euro al mese, considerando nel calcolo pensioni di vecchiaia, pensioni anticipate, di invalidità e superstiti. Ciononostante, le donne a essere andate in pensione l’anno passato sono più degli uomini: 437.596 contro 342.195.

Le cause di questo divario le ritroviamo nella realtà lavorativa delle donne: difficile accesso, carriere discontinue, minori opportunità di avanzamento e salari più bassi pesano enormemente sulle pensioni. Troppo impegnate a tenere le redini delle famiglie e a sobbarcarsi i lavori di cura gratuiti a esse connesse, le donne anche in pensione continuano a trascinarsi gli esiti delle scelte obbligate negli anni lavorativi.

In questo contesto un ruolo importante lo aveva Opzione Donna introdotta nel 2004 dal secondo Governo Berlusconi con l’obiettivo di permettere l’accesso delle donne alle pensioni anticipate. I requisiti, rimasti validi fino al 2022, erano: aver compiuto i 58 anni di età e aver raggiunto i 35 anni di contributi.

Il Governo Meloni ha però stravolto la normativa, aumentando i requisiti necessari: innanzitutto l’età di accesso è innalzata a 60 anni, ancora validi, ma non sufficienti, i 35 di contribuiti. Diventa indispensabile per il 2023 aver avuto almeno un figlio, oltre alla presenza di una delle seguenti casistiche: avere una disabilità al 74%, essere una caregiver (ovvero avere un familiare da accudire da almeno 6 mesi), esser stata licenziata o essere una dipendente di un’azienda in crisi con tavolo aperto al ministero. Solo ed esclusivamente in questo caso l’età minima torna a 58 anni.

Una grandissima stretta che porta a una sensibile riduzione della platea delle donne interessate. Nel 2021 le donne ad aver ottenuto la pensione anticipata tramite Opzione Donna son state 20.681, nel 2022 sono aumentate del 15% arrivando a 23.812. Nel 2023 le lavoratrici interessate sarebbero 2.900, anche se Cgil ribatte che saranno appena 870. Numeri che si prospettano comunque bassissimi lasciando fuori almeno 20.000 interessate.

Il Governo Meloni ha stanziato per Opzione Donna solamente 21 milioni di euro contro i 111 milioni di euro stanziati nel 2022 dal Governo Draghi. «Hanno fatto cassa con Opzione Donna senza spiegarci perché», lamenta Orietta Armiliato, fondatrice del comitato Opzione Donna Social, il quale conta 11.000 iscritte.

La richiesta, urlata a gran voce anche nelle piazze italiane, è quella di ripristinare la norma come era. A sostenerla anche Pd e M5s che hanno depositato degli emendamenti a favore. Tuttavia, la soluzione si prospetta tutt’altro che semplice: mancano i fondi e bisogna trovare delle coperture, come evidenzia il leghista Claudio Durigon, Sottosegretario al Ministero del Lavoro, che afferma «Il capitolo non è chiuso, ci stiamo lavorando con la ministra del Lavoro Marina Calderone. La volontà c’è ed è quella di ripristinare la norma com’era».

La norma è infatti fondamentale, continua Armiliato, perché «Il nostro sistema previdenziale non ha misure a favore delle donne. Era l’unica, anche se penalizzante». E penalizzante è dire poco, in quanto garantisce sì la pensione anticipata, ma prevede anche un taglio retributivo del 20%. E infatti nel 2022 la metà degli assegni era di circa 500 euro al mese e comunque l’89% era inferiore ai 1.000 euro.

Ma a oggi, il Ministero del Lavoro è pronto a fare un passo indietro: potrebbe sparire dal testo normativo il riferimento alla maternità, mentre l’età minima si abbasserebbe a 59 anni. La Ministra Calderone ha spiegato che «Abbiamo fatto più proiezioni che abbiamo mandato al Mef (Ministero Economia e Finanza), sono in attesa, spero di avere risposte a breve, per fare in modo che alcune parti inserite nella manovra siano risistemate».

Una situazione che, tuttavia, sembra bloccata: i sindacati criticano la situazione di stallo in cui oltre 20.000 donne si trovano da mesi, il Ministero dell’Economia continua a non definirla una priorità e ne sottolinea i costi eccessivi. In questo contesto, le parole della Ministra pronunciate lo scorso 8 Marzo alla Cerimonia del Quirinale creano grandi speranze circa la possibilità di revisionare la nuova Opzione Donna.

La norma è, difatti, fondamentale, continua Armiliato, perché «Il nostro sistema previdenziale non ha misure a favore delle donne. Era l’unica, anche se penalizzante». E penalizzante è dire poco, in quanto garantisce sì la pensione anticipata, ma prevede anche un taglio retributivo del 20%. E infatti nel 2022 la metà degli assegni era di circa 500 euro al mese, ma l’89% era inferiore ai 1.000 euro.

Una condizione tutt’altro che idilliaca, che evidenzia quanto sia necessario ripensare il sistema includendo le donne all’interno. Al tempo stesso, però, è indiscutibile l’importanza della manovra: donne che desiderano la pensione anticipata perché hanno genitori, mariti o figli malati da accudire o ancora donne con disabilità ma che non hanno avuto figli e nonostante l’età e gli anni contributivi si vedono negato l’accesso.

Nell’ambito del lavoro dipendente le donne hanno un assegno medio di 1.029 euro al mese quasi il 37% in meno rispetto agli uomini che guadagnano 1.633 euro. Nelle pensioni di vecchiaia, gli uomini guadagnano in media 1.140 euro al mese, le donne 754. Negli assegni parasubordinati il divario è del 54% con 409 euro al mese per gli uomini e 189 euro per le donne. Nella gestione Artigiani il rapporto è 1.108 euro contro 723 euro; tra i commercianti 1.160 euro contro i 772 di assegno pensionistico femminile.

Il problema è, tuttavia, a monte, come evidenzia il segretario Cisl Luigi Sbarra. Le donne accedono alle pensioni prevalentemente con il sistema di vecchiaia e il divario è, come dimostrano i dati, troppo ampio. Diventa dunque necessario agire su più fronti: rafforzare le politiche del mercato del lavoro che sostengono l’occupazione femminile, sviluppare i servizi alle famiglie per garantire una maggior conciliazione tra vita privata e lavorativa, ma soprattutto un maggior equilibrio dei carichi di cura in famiglia. Al tempo stesso, continua Sbarra, bisogna agire sul sistema previdenziale dato che le donne sono state trascurate e penalizzante dalle norme pensionistiche degli ultimi 30 anni.

Indubbia è la necessità di riformare il nostro sistema politico, culturale ed economico su più livelli al fine di garantire una reale integrazione femminile. Al tempo stesso indubbio è il ruolo di Opzione Donna nel sistema pensionistico italiano, l’unica vera disposizione che era pensata per le donne e che, a oggi, non lo è più.

Leggi anche
Lavoro
di Annalisa Sciamanna 4 min lettura
Italia
di Annalisa Sciamanna 3 min lettura