Culture

Come (non) parlare di disabilità?

Iacopo Melio ci regala una piccola grande guida: un vocabolario da tenere a portata di mano e sfogliare ogni volta che abbiamo un dubbio. Per cambiare il nostro linguaggio e, con esso, il mondo
Valeria Pantani
Valeria Pantani giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
30 gennaio 2023 Aggiornato alle 23:00

Disabile o persona con disabilità; “affetto da” o “con sindrome di”; carrozzella o carrozzina. No, le parole non sono tutte uguali: hanno un valore e ci permettono di definire e dare forma a cose e persone. Ma nessunə sa scegliere sempre quelle giuste.

Spesso utilizziamo termini sbagliati perché non ci rendiamo conto che le parole, che ai nostri occhi sembrano corrette, in realtà sono offensive per altrə. Può succedere quando parliamo della comunità Lgbtq+, di persone nere, di popoli nativi, di parità di genere - o meglio, quando gli uomini fanno mansplaining - e quando parliamo di disabilità. Ma, sottolinea Iacopo Melio - giornalista, scrittore, attivista - in È facile parlare di disabilità (se sai davvero come farlo), nessuna persona è nata “imparata”.

Come scrive la sociolinguista e divulgatrice Vera Gheno nell’introduzione del libro, “Essere una persona con disabilità non è una maledizione, una condizione sfortunata” ma “è la nostra società che rende le disabilità un problema”.

Quindi, partiamo proprio da quel che diciamo, dalle parole, per creare un cambiamento nella società e renderla più inclusiva. Per farlo, il primo passo è informarsi, confrontarsi con l’altrə, ascoltarlə e chiedere direttamente a lui/lei come si sente.

Perché serve questo libro? Per cambiare prospettiva (e società)

Ma perché dobbiamo partire proprio dalle parole? “Per anni siamo stati condizionati da pochissime prospettive riguardanti la disabilità quasi tutte con la stessa narrazione distorta”. E così, abbiamo cominciato ad alzare muri per distinguere le persone con disabilità da quelle cosiddette “normodotate”.

Questo libro/manuale non ci aiuta solo a capire come parlare correttamente della disabilità: fa qualcosa in più, spiegandoci cos’è e cosa non è. Perché, per scegliere - in qualsiasi contesto e occasione - le giuste parole, bisogna innanzitutto sapere di cosa si parla.

Ma non esiste solo il linguaggio: anche il tono è fondamentale. Basta pietismo, compassione, sensazionalismo, pathos e tutto ciò che riconduce la disabilità a un fardello, una sfortuna, una sciagura, o una grande lezione di vita.

Mai sentito parlare di inspiration porn?

Ispirare, motivare: parte tutto da qui. Quando una persona con disabilità viene lodata per aver compiuto una semplice azione o per aver raggiunto un traguardo importante; quando parte la frase - sbagliatissima - “Se ce l’ha fatta lui”. Quello è inspiration porn.

«Forse avete visto quella (foto, ndr) della ragazzina senza mani che disegna con una matita tenuta in bocca. O magari avete visto quella del bambino che corre su gambe protesiche in fibra di carbonio. E queste immagini, ce ne sono tante là fuori, sono ciò che chiamiamo inspiration porn (pornografia motivazionale) - ha spiegato l’attivista Stella Young durante TEDxSydney 2014 - E uso deliberatamente il termine porno perché oggettivano un gruppo di persone a beneficio di un altro gruppo. Quindi, in questo caso, stiamo trattando le persone disabili come oggetti a vantaggio delle persone non disabili. Lo scopo di queste immagini è quello di ispirarvi, motivarvi, in modo che possiate guardare e pensare: “Beh, per quanto brutta sia la mia vita, potrebbe essere peggio. Potrei essere quella persona”».

Di nuovo, anche relativamente all’inspiration porn, il concetto alla base è sempre lo stesso: la società impone un modello, uno standard (quello del cosiddetto “normodotato”): tutto ciò che non vi rientra, è straordinario ed eccezionale.

Infatti, scrive Melio, elementi fondamentali dell’inspiration porn sono “compassione e pietismo, ma anche il bisogno delle persone “normodotate” di automotivarsi e, magari, sentirsi più fortunate”.

Poi, c’è l’abilismo: in poche parole, è la discriminazione delle persone con disabilità. Ma cosa c’entra con le parole? “Combattere l’abilismo è fondamentale! Ed ecco perché lo si deve fare partendo proprio dal dargli un nome ben preciso, affinché non sia più invisibile”.

Eccolo, il potere delle parole.

Le parole sono importanti

Dopo qualche nozione teorica e un capitolo dedicato alla storia e all’evoluzione delle definizioni, Melio si (ci) chiede: quindi, quali sono le parole giuste che dobbiamo usare?

Propone così un piccolo vocabolario - che prosegue poi alla fine del libro con un glossario più ampio - dove indica ciò che si può e ciò che non si può dire. Proprio per questo, oltre che per la semplicità con cui vengono spiegati i concetti,È facile parlare di disabilità (Erickson, 135 pagine, 16 euro) non è solo un libro “teorico” ma una piccola guida, un vocabolario da aprire e sfogliare quando abbiamo qualche dubbio, per modificare il nostro linguaggio e renderlo più inclusivo.

Ma basta solo questo? Assolutamente no: c’è bisogno - sottolinea Melio - di educatorə e insegnanti formatə, di datori e datrici di lavoro attentə che assicurino ai lavoratorə condizioni per esprimere le proprie potenzialità; c’è bisogno di un intervento da parte della politica, del terzo settore e della sanità.

E se noi, come singolə, non sappiamo da dove partire, cominciamo dalle parole.

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