Culture

Immortalare il male, per non dimenticarlo

Il nuovo romanzo di Roberto Genovesi, Il ragazzo che liberò Auschwitz, è un inno al potere delle immagini non solo nel raccontare l’irraccontabile, ma anche di preservarne la memoria
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
27 gennaio 2023 Aggiornato alle 10:00

«La sai qual è la differenza tra un fucile e una macchina fotografica?», mi chiese allora Igor.

«La differenza?». Non capivo.

«Sì, la differenza», fece Igor rimettendo la sua Leica nella custodia. Poi sollevò la testa. «Tanto un fucile quanto una macchina fotografica hanno un grilletto che fa scattare un meccanismo. Ma il meccanismo che fa funzionare un fucile porta la morte mentre quello che aziona una macchina fotografica regala l’immortalità».

È in questo breve scambio di battute tra Vlady, sedicenne arruolatosi volontario nell’Armata Rossa per proteggere il fratellino, e il fotografo russo che gli apre le porte a un nuovo modo di guardare il mondo – attraverso la lente e l’otturatore – che potremmo forse riassumere il senso più profondo del nuovo romanzo di Roberto Genovesi, Il ragazzo che liberò Auschwitz, edito da Newton Compton Editori (278 p., 12,90€) e presentato lo scorso lunedì al Maxxi di Roma con Giampaolo Rossi, Mario Venezia, Ruth Dureghello e Alessandro Giuli.

Un libro sulla Shoa, l’orrore dei campi di sterminio, sulla banale insensatezza del male. Ma anche, e forse soprattutto, un libro sul potere delle immagini non solo nel raccontare l’irraccontabile, ma anche di preservarne la memoria.

È un lungo avvicinamento quello che porta Vlady dalla sua Ucraina ai campi di sterminio – ché di questo si trattava, insiste a ricordarci, non di campi di concentramento – di Auschwitz-Birkenau e che porta noi, passo dopo passo assieme a lui, sempre più vicino al cuore di quell’orrore indicibile che è prima evocato e poi sempre più palpabile, anche se ancora incomprensibile.

Come se quell’orrore, nella sua meticolosa, puntuale e disumana organizzazione, non potessimo che vederlo attraverso un filtro. Della macchina fotografica, che tutto cattura prima ancora di comprenderlo: prima si scatta, poi si capisce cosa si è scattato, ci insegnano i due fotografi-maestri di Vlady. Del racconto nel racconto nel racconto di Hubert, il prigioniero rom che narrando la sua storia aiuta il protagonista a ricomporre la realtà oscena dei campi che si nasconde dietro le rovine che i tedeschi si sono lasciati dietro cercando di cancellare il loro piano per la “soluzione finale”. Delle fotografie che quel piano immortalano nella sua agghiacciante lucidità.

E, in mezzo a quell’orrore, mentre fa capolino dalle fotografie e sembra volere giocare una caccia al tesoro tra i resti della Birkenau ormai deserta in cui Vlady cerca la verità, l’umanità che resiste. Un’umanità che ha un volto di ragazza, di una voce senza voce che racconta la volontà di non cedere all’odio e alla violenza.

Il termine “immortalare” ha il doppio significato di “rendere immortale” e “fotografare, raffigurare”. E probabilmente non a caso. Quando parliamo di Olocausto, queste due facce di un’unica medaglia sono entrambe determinanti, oggi come in quel gennaio di 78 anni fa.

La Memoria è un patrimonio collettivo che va alimentato, soprattutto quando i suoi testimoni ci lasciano dopo aver consegnato il loro messaggio alla Storia. Arriverà un momento in cui non ci sarà più nessuno che abbia vissuto gli orrori della Shoa a poterli raccontare. Allora, a dare nuova forza alle loro parole rimarranno le immagini, quelle immagini catturate da chi – come Sergej, Vlady e i cineoperatori che hanno “liberato” Auschwitz e Birkenau – per primo ha visto il male e, invece di scappare e voltare lo sguardo, è rimasto e attraverso l’obiettivo lo ha guardato, perché tutti potessero conoscerlo. Rimarranno a rendere omaggio a chi quell’orrore crudele e insensato ha sofferto, a combattere chi quell’orrore vorrebbe negare.

Ricordare quanto sia importante ricordare non è mai superfluo, né vano. È un esercizio che tutti dovremmo fare ogni giorno, non solo in occasione della Giornata che quella Memoria condivisa celebra. Per questo, raccontare chi ci ha permesso di farlo, dandogli il volto di un sedicenne che, solo davanti alla porta dell’inferno, fa di questa urgenza di fissare il male per tramandarlo e impedirgli di svanire una missione, è qualcosa di più che l’ultimo, ben scritto, romanzo sull’Olocausto.

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