(martijin baudoin)
Ambiente

Perché l’Italia non crede alle rinnovabili

Con il decreto legge sul caro energia, il Governo ha tagliato incentivi e fondi alle “fonti pulite”. Le associazioni ambientaliste lanciano l’allarme
di Sergio Ferraris
Sergio Ferraris Direttore della rivista Nextville
Tempo di lettura 4 min lettura
25 gennaio 2022 Aggiornato alle 19:00

È un Paese, l’Italia, che non crede alle rinnovabili. Prima sono arrivate le parole del ministro Roberto Cingolani, il 18 gennaio, durante l’audizione nelle commissioni di Camera e Senato delle Attività Produttive/Industria; poi sono seguiti i fatti, da parte del Governo, con il Decreto Legge sul caro energia approvato il 21 gennaio.

Che cosa è successo

Durante l’audizione il ministro Cingolani ha sostenuto il taglio degli incentivi sulle rinnovabili perché “sono soldi che alle fonti pulite non servono più”. Un’affermazione secca del ministro che ha preceduto di poco il varo del meccanismo con il quale si privano di ulteriori fondi le fonti rinnovabili attraverso il Decreto Legge, presentato in Consiglio dei Ministri pochi giorni dopo l’audizione. Il meccanismo messo a punto è complesso e si basa sul differenziale tra il prezzo odierno e quello medio fino al 2020, anno nel quale i prezzi dell’elettricità sono stati molto bassi a causa della pandemia.

«Le dichiarazioni del ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani sulle soluzioni proposte per il caro energia sono in contrasto con il principio, giusto, di voler accelerare lo sviluppo delle rinnovabili» afferma il Presidente del Coordinamento Free, Livio de Santoli. «La revisione dei contratti di incentivazione delle rinnovabili potrebbe peggiorare una situazione già critica per gli operatori, che vede attualmente assegnata solo una piccola parte della disponibilità dei bandi, per motivi legati alle autorizzazioni degli impianti a fonti rinnovabili (il cosiddetto “permitting”), e quindi provocare l’effetto contrario rispetto a quanto dichiarato».

Le reazioni ambientaliste

Non hanno tardato ad arrivare anche le dichiarazioni delle associazioni ambientaliste WWF, Greenpeace, Legambiente e Kyoto Club, che hanno puntato il dito sull’utilizzo improprio dei fondi pagati dalle aziende energivore per i permessi d’emissione ETS, secondo il principio che “chi inquina paga”, che dovrebbero essere usati solo per miglioramenti ambientali. «Particolarmente grave è l’intervento di prelievo di queste risorse, che le Direttive europee prevedono siano destinate all’innovazione e alle politiche di decarbonizzazione»-affermano le 4 associazioni ambientaliste. Il sistema ETS si fonda sul principio del “chi inquina paga”, ma a oggi la metà dei proventi vanno alla fiscalità generale e il resto al MITE e al MISE senza una evidenza dell’impatto della spesa nella decarbonizzazione. Parte dei fondi sono addirittura stati destinati ai settori energivori, peraltro ampiamente esentati dalle quote ETS, e che quindi usufruiscono di un sistema “chi inquina viene pagato” di dubbia natura; discorso analogo alla copertura degli oneri per i nuovi entranti».

Un approccio sbagliato alla cultura energetica

Queste dinamiche del Governo la dicono lunga sull’approccio alla cultura energetica che viene messo in campo. Si cercano nelle pieghe delle nuove energie dei “colpevoli” extraprofitti che è persino complicato identificare, visto che il decreto in questione è di difficile interpretazione persino agli addetti ai lavori, mentre si evita accuratamente di operare sulle fonti fossili. Le royalties nostrane d’estrazione del gas e del petrolio sono tra le più basse del mondo e un loro aumento non influirebbe sul prezzo finale, visto che quest’ultimo viene deciso dai mercati internazionali. Ciò che sarebbe compresso in questo caso sarebbe il profitto delle compagnie fossili. Si tratta di un problema cultura energetica. Su ciò, per esempio, è indicativa la dichiarazione del ministro Cingolani che ha detto che: «un risparmio da quantificare arriverebbe dal raddoppio della produzione nazionale di gas: da 4,5 miliardi di metri cubi all’anno a 8 miliardi”.

Per prima cosa non si capisce se ciò fosse veramente conveniente, perché questo raddoppio non sia stato fatto prima, ma soprattutto stupisce il fatto che non sia citato il biometano che ha esattamente la stessa potenzialità dell’estrazione del gas naturale (8 miliardi di metri cubi all’anno), ma con il vantaggio di essere rinnovabile e strutturale, visto che non si esaurisce nel giro di 10 anni, come le poche riserve fossili che abbiamo nel sottosuolo. In secondo luogo non si capisce come l’introduzione di una quantità così modesta di gas sul mercato europeo, dove nel 2020 sono stati consumati 597 miliardi di metri cubi di gas, potrebbe influire in senso positivo sui prezzi. Una sottovalutazione complessiva e sistemica che la dice lunga su come i nostri decisori politici stiano affrontando la transizione energetica.

Leggi le osservazioni del Coordinamento FREE su Nexville

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