Storie

Fondazione Adele Bonolis, dove si riabilitano le vite

Lo staff della onlus racconta a La Svolta il lavoro di cura e assistenza promosso all’interno delle strutture attive, a cui entro il 2023 si aggiungeranno altri 6 appartamenti dedicati al cohousing
Credit: fondazioneadelebonolis.it
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
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25 gennaio 2023 Aggiornato alle 20:00

Nella provincia di Monza e Brianza, sulla sponda destra del Lambro, c’è un paesino che conta meno di 8.000 abitanti e prende il nome dal fiume che lo costeggia: Vedano al Lambro. Qui sorge la prima struttura della Fondazione Adele Bonolis - Assistenza Fraterna. Promossa da Adele Bonolis, legatissima al nipote Paolo Bonolis, che ha chiamato sua figlia proprio Adele, risale al 1970, quando venne inaugurata la prima Casa “per ospitare persone dimesse dal carcere e dai manicomi giudiziari”. Fu convertita in centro di assistenza per malati psichici, divenendo negli anni ’80 un istituto di riabilitazione psichiatrica, alla luce delle novità normative che hanno decretato il superamento definitivo dell’idea di manicomio.

Adele Bonolis, che dedicò la sua intera esistenza al prossimo, a partire dalle ex prostitute, è stata un’educatrice e insegnante, e Papa Francesco l’ha proclamata “Venerabile” nel 2021. A lei è dedicato il docufilm “La centesima strada: viaggio alla scoperta delle case di Adele Bonolis”. La sua onlus, che opera in convenzione con il Sistema Sanitario Nazionale, dal 2012 al 2021 ha accolto 540 pazienti tra le mura delle strutture oggi attive: le due Comunità Protette ad Alta Assistenza (CPA) di Casa San Paolo, le due Comunità Riabilitative ad Alta Assistenza (CRA) di Casa Iris, a Vedano al Lambro, dove sorge anche il Centro Diurno Eudossia, e infine i sette appartamenti in cohousing, di cui cinque nella struttura principale e due nel territorio. Se ne aggiungeranno altri sei entro la fine del 2023 grazie a un progetto di ampliamento che prevede un investimento di 1,5 milioni di euro dalla Fondazione Cariplo e dalla Fondazione Maddalena Grassi.

Le strutture residenziali accolgono pazienti psichiatrici autori di reato: un esempio di attuazione virtuosa della legge italiana del 2014 che ha abolito gli Ospedali Psichiatrici Giudiziari e ha affidato alle REMS (Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, strutture sanitarie di accoglienza per gli autori di reato affetti da disturbi mentali e socialmente pericolosi, ndr) e alle realtà come la Fondazione Bonolis il compito di occuparsi di queste persone in un’ottica di riabilitazione. La Fondazione lo fa attraverso varie aree di intervento: dall’attività fisica alla riabilitazione intellettuale, dal tentativo di riconnessione del filo della propria storia personale alla riappropriazione della competenza economica.

Monica Mauri, coordinatrice di una delle due CRA della Fondazione, la CRA R1, con sede a Monza fino al 2008, spiega a La Svolta che, attualmente, «gli autori di reato sono circa 15, per la maggior parte uomini. Dal 2012 al 2021, sono stati in totale 98, divisi tra le 4 residenze». Per ogni ospite della struttura, la Regione Lombardia paga una retta giornaliera, poi ci sono le donazioni eventuali e i fondi a cui la Fondazione può fare riferimento per determinate attività specifiche. Mauri spiega che tra gli ospiti - provenienti dalla Lombardia, criterio fondamentale per il sistema di accreditamento e contratto - ci sono anche i giovani sottoposti a messa alla prova (sospensione del procedimento penale nella fase decisoria di primo grado per reati di minore allarme sociale, ndr), che arrivano dal Tribunale dei minori, e anche giovani adulti sottoposti a vincoli legali dal tribunale degli adulti.

Il percorso di una persona sottoposta a un vincolo legale non è diverso da quello di chi decide volontariamente di avviare un percorso di cura in una delle strutture della Fondazione: «Nel momento in cui la accogliamo, naturalmente l’autore di reato è sottoposto a misure di sicurezza, disposizioni legali e limiti della propria libertà dei quali ci facciamo carico e a cui ci atteniamo: per esempio, se una persona è sottoposta agli arresti domiciliari, noi facciamo in modo che comprenda, accetti e rispetti questa regola. Se è sottoposta a una misura di sicurezza della libertà vigilata o situazioni analoghe, non detentive, la persona (quando autorizzata) può uscire con gli operatori per fare attività all’esterno o per esigenze proprie del percorso terapeutico riabilitativo».

Nel momento in cui, con la valutazione clinica (effettuata per tutti i pazienti, non sono per gli autori di reato) si considera che la persona è pronta a fare determinati passaggi, come le uscite, è necessario avere l’autorizzazione del magistrato di sorveglianza. «I percorsi, nella nostra tipologia di struttura, la CRA, possono durare 18 mesi, con un eventuale rinnovo di 6. A volte vengono interrotti, altre vengono portati a compimento, altre ancora terminano qui da noi, ma la maggior parte delle volte necessitano di una prosecuzione in un’altra tipologia di struttura», spiega Mauri. Ovvero: se dopo i 18 mesi (o eventualmente 24), la persona non ha concluso il suo percorso di cura, e non può rientrare a casa propria o dai genitori, occorre che il servizio inviante, il CPS, individui un’altra struttura per continuarlo. «Due o tre persone hanno concluso il procedimento legale a cui erano sottoposte mentre erano nella nostra comunità».

La Fondazione è una realtà che opera dagli anni ’80-’90, «quindi gradualmente si è radicata nel territorio, e credo che da parte di chi risiede intorno alle nostre strutture ci sia una grande consapevolezza, un profondo accoglimento delle nostre realtà: non ho mai avvertito alcuna preoccupazione. I nostri ospiti, anche gli autori di reato, escono in autonomia quando possono farlo, e in generale non hanno mai creato alcun problema. Siamo molto attenti a valutare e a riflettere con l’ospite dell’opportunità di uscire, perché ogni ospite può avere una situazione di malessere, e vale sia per un autore di reato che per chi si trova qui volontariamente. Noi esistiamo come parte essenziale di un progetto di presa in carica di pazienti autori di reato», racconta Mauri.

Entro la fine del 2023 verranno costruite altre 6 unità abitative, ricavate da un piano aggiuntivo in cantiere nell’edificio storico di Casa San Paolo, che potranno ospitare 11 persone in mono e bilocali: l’obiettivo, spiega la Fondazione, è quello di rendere gli ospiti progressivamente autonomi fino a trasferirsi, quando possibile, in un contesto abitativo autonomo fuori dalla struttura. Il co-housing è un’opportunità per persone fragili di riabitare, ritrovare una possibilità di indipendenza per alcuni del tutto insperata. Lo spiega La Svolta Cinzia Mattavelli, medico psichiatra, vicedirettrice e referente per le due CRA di Casa Iris. «Si tratta di un appartamento, come fosse uno di libero mercato, al quale afferiscono pazienti con problematiche psichiche. Non tutti, dopo i 18 o 24 mesi di Cra sono pronti per il co-housing, ma in questi anni abbiamo visto alcune persone riuscire effettivamente a riappropriarsi della propria vita». La Fondazione ha inaugurato i primi appartamenti esterni nel 2017 e due anni dopo, in occasione del Natale, «i 5 nuovi appartamenti al piano terra. È stata una risposta ai bisogni dei nostri pazienti: abbiamo persone che dopo il percorso in comunità rientrano in famiglia e lo fanno bene, altre che fanno un passaggio in altre comunità, ma di fatto mancava il tassello che ci permettesse di capire come si comportassero in una situazione di maggiore autonomia».

Il metodo della Fondazione Adele Bonolis è orientato alla riabilitazione e alla valorizzazione delle capacità delle persone: «Arrivano da noi già con una diagnosi psichiatrica ben precisa, magari formulata in una situazione di esordio, e nel momento in cui avviene, da parte nostra, una conoscenza sulle 24 ore 7 giorni alla settimana, spesso accade di riformulare quella che viene chiamata la “diagnosi comunitaria”: a esempio, la persona che arriva con diagnosi di disturbo mentale e comportamentale indotto dall’uso di sostanze, abbandona questi comportamenti quando si inserisce in una situazione protetta in cui viene eliminato questo fattore disturbante», spiega Mattavelli.

La persona arriva «con un piano terapeutico individuale, e nel giro di 1/3 mesi viene strutturato un piano di trattamento residenziale compilato da tutta l’equipe che la segue: il medico e lo psicologo, il coordinatore, che è un educatore, l’operatore e l’ausiliario. Accade che, a volte, le cose vengano confidate non al medico, ma all’ausiliario che va a fare il letto del paziente, magari per timore o vergogna». Il piano viene condiviso con il paziente, poi si invia al CPS e si rinnova ogni anno o ogni qualvolta accada qualcosa di rilevante per la storia del paziente. L’area dell’autonomia è la prima in cui si comincia a lavorare, con lo sviluppo della quotidianità: la sveglia la mattina, che per alcuni avviene in autonomia, la colazione e l’assunzione della terapia, poi la riunione del mattino in cui ognuno parla dei propri impegni quotidiani, come le uscite per il tirocinio, o le uscite per adempimenti personali, alcuni in autonomia o accompagnati dagli operatori, poi la preparazione della mensa svolta a turno con la supervisione dell’operatore, con la preparazione delle pietanze e la distribuzione alle varie comunità, e la risistemazione delle stoviglie.

Una volta alla settimana c’è una riunione “di discussione e confronto” in cui emergono i temi più disparati: dall’organizzazione della settimana, delle gite estive o delle visite, al confronto su eventi salienti accaduti in settimana. Poi, nel pomeriggio ci sono le attività svolte o all’interno o all’esterno delle Case. Di queste si occupano gli educatori come Patrizio Beretta, giunto alla Fondazione a gennaio di tre anni fa: segue pazienti che vivono all’interno delle Cra di Casa Iris: «Mi occupo prevalentemente di giovani perché in questo periodo c’è un’ondata di persone tra i 18 e i 25-26 anni. Insieme a un altro educatore e alla coordinatrice operiamo in una struttura che può avere non più di 20 ospiti, quindi siamo referenti di circa 6-7 ospiti a testa, di cui abbiamo più a fuoco il percorso: se hanno determinati bisogni li chiedono a me». Beretta segue personalmente 2/3 attività fisse, ma non quotidiane: «L’ippoterapia, che avviene nella scuola di equitazione al Parco di Monza, che ha una parte adibita alle strutture sanitarie, con cavalli tranquilli con cui compiere un primo approccio; poi l’attività ai fornelli, in cui cuciniamo insieme per capire il grado di autonomia degli ospiti, e insieme all’altro educatore la palestra. Nella quotidianità possiamo fare anche arteterapia, o leggiamo libri, oppure scriviamo».

Beretta racconta che spesso, all’inizio, i pazienti sono molto euforici nel fare le attività, poi subentrano la quotidianità e la monotonia, «quindi tocca a noi operatori ed educatori stimolarli. Durante la giornata è anche previsto un momento di inerzia, perché i pazienti, dovendo riabituarsi alla quotidianità, devono anche “abituarsi anche alla noia”, e questo è un momento molto delicato in cui fanno i conti con loro stessi, cosa che li porta a cercarci molto più spesso rispetto ad altre figure. Ci vedono come operatori in grado di poterli affiancare nei momenti più critici».

Anche le festività possono esserlo: Mattavelli racconta che in queste occasioni «organizziamo dei momenti in cui invitiamo anche le famiglie dei pazienti, perché il nostro lavoro è in primis quello di ripristinare gli affetti, per quanto possibile. Ma spesso ci si trova di fronte a dinamiche di alta conflittualità intrafamiliare. Oppure, per alcuni pazienti psicotici, l’avvicinarsi delle feste porta con sé un turbinio di emozioni». Mattavelli racconto di un episodio avvenuto a dicembre: «Un ragazzo ha avuto uno scompenso psicotico provocato dalla possibilità di rivedere di lì a poco i familiari che non vedeva da tempo: fino a due giorni prima era lì, bello come il Sole, e poi è “crollato”. Io e lo psicologo ci siamo fermati, abbiamo parlato con lui, e questo ha fatto sì che, anziché essere spedito con un Trattamento Sanitario Obbligatorio in ospedale, è rimasto qui e si è affidato alle nostre cure. E qualche giorno dopo abbiamo potuto portarlo a pranzo, tutti insieme».

Mattavelli racconta l’episodio con una voce piena di amorevolezza. Si sente una «psichiatra chioccia», fa fatica a dimettere. «Spesso dico che questo è un lavoro in cui ti trovi a fare i conti con la tua impotenza e con un senso di frustrazione. Ma l’enorme passione che c’è dietro ti fa capire che stai facendo qualcosa di positivo. E tanto basta».

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