Città

La periferia è il nuovo centro?

Da una parte, lo smart working che richiede spazio; dall’altra, la ricerca di case a prezzi accessibili. Tutto ciò fa migrare le fasce di reddito alte. Incentivando la marginalizzazione dei gruppi più fragili
Credit: Kelly/pex
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22 gennaio 2023 Aggiornato alle 06:30

A causa della pandemia, dal 2020 il telelavoro ha trattenuto le persone in casa, rendendo gli spazi abitativi più rilevanti di quanto non fossero prima.

Chi ha sempre lavorato in ufficio ha riscoperto il piacere ma anche la difficoltà di stare in casa e di conseguenza gli ambienti sono stati migliorati, resi più piacevoli e confortevoli. Al contempo, però, gli spazi sono apparsi improvvisamente ristretti, privi di un angoli adatti al lavoro di una o più persone.

Negli ultimi tre anni ho perso il conto del numero di amici che hanno cambiato casa in cerca di spazi maggiori. La tendenza è quella di spostarsi per trovare metrature ampie, abbandonando i centri cittadini e realizzando quello che è stato definito effetto ciambella, per cui i centri si svuotano e i bordi delle città si ingrossano.

Quei margini sempre più presi d’assalto non sono però zone neutre, ma ambienti con una demografia ben precisa che sta sentendo da tempo la spinta della gentrificazione, la trasformazione di un quartiere popolare in zona abitativa di pregio.

Nel mio quartiere è apparsa una torre, un enorme monolite abitativo che ha sostituito un edificio che quando ero piccola ospitava il beja flowers, un grande negozio di animali che agli occhi di una bambina era solo uno spazio nel quale vedere ogni rarità: dai criceti alle tarantole, passando per insetti stecco e rettili. Quando ho raggiunto la preadolescenza l’ex-beja flowers verteva in stato di abbandono completo e fu dato alla protezione civile ma anche quel tempo finì, e lo spazio divenne presto una porzione di terra e giardino in disuso.

Oggi, che del Beja flowers si ricorda chi era bambino negli anni Novanta e aveva trovavo in lui la meraviglia che spesso non c’è in periferia, al suo posto sorge questo monumento alla quantità.

La compressione abitativa delle torri verticalizza la città e la proietta verso la concentrazione delle altezze e non sorprende che la razionalizzazione dello spazio urbano segua percorsi così poco velatamente maschili anzi, estrarre il massimo dalla limitazione spaziale è un principio fedele al capitalismo radicale.

E dunque, c’è una torre ma nessuno del quartiere vi ha comprato casa. Anzi, gli appartamenti (per la maggiore ancora vuoti) sono stati venduti prima ancora che fosse terminata a prezzi che nulla avevano a che fare con le tariffe che un abitante della Comasina conosce.

La città sta cercando di mettere a reddito le periferie e di trasformarle mediante opere di costruzione che porteranno alla foodification - la trasformazione dell’area urbana in una fiera in cui il cibo è esperienza e intrattenimento - e passeranno per securitizzazione. Quando si parla di messa in sicurezza di quartieri come quello in cui sono cresciuta, la città intende sicurezza relativa e garantita per quelli che abitano il centro urbano.

Dunque, non le necessarie opere che renderebbero più vivibile il quartiere a chi lo anima da sempre, bensì un uso delle forze dell’ordine che, se produce un effetto, è solo quello di allontanare gli abitanti più marginalizzati, ovvero persone disoccupate, razzializzate o che si ritrovano nell’economia informale o illegale.

Periferie verticali e redditizie, trasmutanti in imitazioni di un centro ricco che oggi cerca spazi maggiori per avere almeno due uffici separati in casa, una piccola palestra o una stanza da dedicare al nuovo hobby scoperto in pandemia. Il centro però, al momento, offre prezzi accessibili davvero a pochi e quindi le classi medio - alte rivolgono lo sguardo e la ricerca ai quartieri di periferia o alle province, gli spazi urbani e proto urbani dove storicamente si concentrano le classi lavoratrici e la migrazione interna ed esterna.

La situazione a questo punti investe proprio loro. Dove andranno gli abitanti della periferia? Quali spazi rimarranno per loro? Se la provincia diventa ambiente di fuga tanto quanto la periferia, i lavoratori e, soprattutto le lavoratrici perdono la prossimità alla città con annessi rischi. L’ulteriore espulsione sociale interagisce con le già presenti diseguaglianze, acuendo la difficoltà di conciliazione dei vari aspetti della vita.

Per una donna madre e lavoratrice cambiare abitazione uscendo dalla città significa cambiare percorso e modificare l’incastro - sempre già precario - tra attività lavorativa e attività di cura. Significa che al netto della necessità di accudimento della prole o di altri membri familiari non autosufficienti, le famiglie si troveranno a compiere scelte di ottimizzazione che il più delle volte, anche a causa del gender gap e della minor considerazione del lavoro femminile, produrranno l’abbandono del lavoro retribuito da parte delle donne.

Dunque, l’autonomia economica femminile ne risentirà, acuendo la dipendenza dal contesto familiare e rendendo ancora più difficile lasciare ambienti familiari problematici o anche solo non più congeniali.

E se le periferie cominciano a essere destinazione di investimenti immobiliari, i proprietari attuali saranno incentivati a vendere le case che affittano a prezzi minimi ad agenzie o società del settore. Per farlo, è necessario in primo luogo disfarsi dei residenti, con avvisi di sfratto o aumenti degli affitti che improvvisamente rendono precaria la vita.

La spinta era già in atto prima della pandemia, ma ha trovato in essa il suo propulsore definitivo. Se prima nelle periferie la città concentrava la popolazione da cui intendeva estrarre forza lavoro e capitale umano, oggi ha deciso di spostarla ancora più lontano.

Chi abita il centro però, non si accontenta di metrature ampie e prezzi vantaggiosi, vuole servizi che mimino l’offerta a cui erano abituati e dunque, paradossalmente, la città si ritrova a investire in quegli stessi luoghi così accuratamente lasciati fuori dalle spese di mantenimento cittadino.

Nel mentre, si lamenta lo svuotamento dei centri, ma è davvero così? O forse non si sta realizzando una concentrazione di ricchezza ancora maggiore in uno spazio ridotto e pensato per essere sempre più accessibile?

Dopotutto , il vittimismo del centro non è una novità.

Dopo aver chiuso e compresso le periferie, dopo averne rigettato per lungo tempo gli abitanti cercando al contempo di abbagliarli con il suo splendore, dopo aver pressato e oppresso i gruppi colpiti da maggiori e multipli livelli di discriminazione in ambienti dimenticati, se non dall’organizzazione informale, ora che cerca di espellerli del tutto piange per il suo piccolo buco nel cuore, mentre cerca di estrarre anche l’ultima briciola di guadagno.

Piange, per un vuoto, mentre si cura di strappare dalle mani delle periferie anche il senso della casa, dell’appartenenza, della prossimità emotiva e lavorativa, della continuità e delle reti informali, sparpagliando chissà dove persone e identità.

Non è tanto una ciambella, quando una tenaglia, quella che si sta delineando. Centri protetti dal costo, si espandono a periferie improvvisamente interessanti e a province oggetto di grandi investimenti immobiliari, lasciando chi abita le periferie con poche, pochissime possibilità e chiudendone gli abitanti in una morsa che fa bene alle tasche di pochi, mentre distrugge le sicurezze dei molti.

Una maledetta torre alla volta.

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