Bambini

Che cos’è la shaken baby syndrome?

L’ostetrica e divulgatrice sanitaria Alessandra Bellasio spiega a La Svolta: «Consiste nello scuotimento violento del piccolo da parte di chi se ne sta occupando». Ma quali sono i potenziali rischi?
Credit: cottonbro studio/pexel
Caterina Tarquini
Caterina Tarquini giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
19 gennaio 2023 Aggiornato alle 18:00

Ne abbiamo sentito parlare recentemente, per i casi di cronaca nel modenese. I genitori di 2 bambini intorno ai 4-5 mesi di vita sono indagati per maltrattamenti: i loro figli sono stati ricoverati per la cosiddetta shaken baby syndrome al Policlinico di Modena.

Alessandra Bellasio - 37 anni - è un’ostetrica, consulente professionale in allattamento, insegnante di manovre di “Disostruzione Pediatrica”, divulgatrice sanitaria che propone videocorsi e consigli pratici attraverso la piattaforma digitale UniMamma e le sue pagine social. Intervistata da La Svolta, ha spiegato che cos’è la sindrome del bambino scosso, le sue cause, i potenziali danni e come prevenirla.

Che cos’è la sindrome del bambino scosso?

È una forma di maltrattamento fisico ai danni del bambino, in genere sotto i 2 anni d’età. Il periodo di maggior rischio si colloca tra le 2 settimane e i 6 mesi di vita del piccolo: si tratta di un lasso di tempo cruciale, in cui il bambino soffre spesso di coliche e piange più frequentemente. Il genitore, sfinito, frustrato e impotente, potrebbe perdere la pazienza e cercare di farlo smettere di piangere nel modo sbaglio. Per l’appunto, il maltrattamento che può causare la shaken baby syndrome consiste nello scuotimento violento del piccolo da parte del genitore o della persona che se ne sta occupando.

Quali sono le possibili conseguenze nel breve e nel lungo termine?

Il danno dipende chiaramente dalla violenza dello scuotimento e dall’età del bambino: più è piccolo, più sarà vulnerabile. Bisogna poi considerare il fatto che potrebbe trattarsi di episodi ripetuti nel tempo. In questo caso, anche se non si manifestassero nell’immediato effetti negativi, i danni potrebbero sommarsi e aggravarsi di volta in volta.

Le ripercussioni si hanno soprattutto a livello cerebrale e neurologico. Le conseguenze possono essere anche molto gravi, possono condurre al coma e alla morte del bambino, come abbiamo appurato tristemente dalla cronaca. Ma, possono determinare problematiche serie anche a distanza di anni: disabilità, epilessia e ritardo psicomotorio.

Ci sono dei sintomi particolari che dovrebbero mettere il genitore in allerta?

Il piccolo scosso in quel modo potrebbe diventare nel giro di poco letargico, sonnolento, irritabile, potrebbe manifestare un drastico calo dell’appetito o anche vomitare. O ancora, un neonato che abbia già iniziato a vocalizzare, potrebbe a seguito dell’incidente, cessare improvvisamente di farlo. Nei casi più gravi, potrebbero verificarsi episodi convulsivi o crisi epilettiche.

Se ne sta parlando molto in questo periodo, tanto che qualcuno ha ipotizzato un aumento della casistica a seguito della pandemia. Secondo lei è possibile?

No, non credo ci siano dati concreti per poterlo sostenere. Mi viene da pensare, piuttosto, che stia aumentando la consapevolezza sul tema e che di conseguenza siano aumentati i casi dichiarati. È possibile, però, che l’isolamento forzato delle mamme durante l’emergenza sanitaria non abbia aiutato. Rispetto al passato, le giovani madri di oggi si ritrovano sole, prive di una rete familiare di supporto.

Tra le altre cose, si occupa anche della delicata dimensione della maternità e delle pressioni sociali che ne alterano gli equilibri. Quali sono i disagi maggiori vissuti dalla neomamma e dal neopapà? Quanto possono incidere rispetto alla sindrome dello shaken baby?

Il periodo più delicato coincide con i primi 40 giorni a casa, di ritorno dall’ospedale. La neomamma soffre di stanchezza, di carenza di sonno e come dicevo prima, dell’assenza di un’effettiva rete familiare e sociale che dia assistenza concreta: si tratta di mamme giovani, lavoratrici, che spesso non possono contare sul supporto dei nonni, che magari a loro volta lavorano.

In passato, le nonne e le zie si prendevano carico, assieme alla mamma, della cura del piccolo nei primi mesi di vita. Un contesto come quello odierno sicuramente amplifica lo stress e rende ingestibili situazioni che in altri momenti lo sarebbero perfettamente. Il fattore scatenante e purtroppo ricorrente è sempre lo stesso: la solitudine. Di notte, quando il partner dorme o è in ufficio, la donna si ritrova in una condizione mai vissuta prima, in cui rischia di sentirsi sola e inadeguata.

Cosa consiglia e come affronta questi problemi nel suo lavoro di ostetrica e nella sua attività di divulgatrice?

Innanzitutto penso che si debba agire sulla prevenzione e la conoscenza della problematica: sapere che lo scuotimento può causare danni irreparabili al bambino rende i genitori più attenti nel gestire il pianto del piccolo.

Ogni giorno, cerco di sensibilizzare con trasparenza e realismo sulle difficoltà della maternità, di porre l’accento sulle sfide che arrivano dopo il parto: mentre tutti - papà, nonni, zii - rientrano nella propria routine, la mamma è l’unica a vedere, per forza di cose, la propria vita stravolta.

Spiego alle mie pazienti che può succedere di sentirsi sopraffatte, sfinite, di perdere la calma, e che in quel caso, per il proprio benessere e anche per quello del bambino, è importante prendere fiato. Anche se il piccolo piange, per qualche minuto possiamo riadagiarlo nella culla, bere un bicchiere d’acqua, calmarci e poi riprendere con più serenità ad accudirlo. È un suggerimento semplice, ma che dà i suoi frutti.

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