Ambiente

Ecuador: storia di una dipendenza “fossile”

Nel 2007 l’ex Presidente Rafael Correa propose un’alternativa all’estrazione del petrolio: creare un fondo per controbilanciare la scelta di lasciare intatte le riserve dello Stato. Qualcosa, però, non ha funzionato
Credit: Santiago Armas/Xinhua/ ZUMAPRESS.com
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17 gennaio 2023 Aggiornato alle 18:00

La storia dell’Ecuador e del suo coraggioso tentativo di lasciare le sue vaste riserve di petrolio nel sottosuolo a beneficio delle comunità indigene, della foresta pluviale e, in definitiva, del mondo, è una storia di un fallimento triste quanto indotto.

A vincere sono state le forze finanziarie che stanno inesorabilmente spingendo il piccolo Paese del Sudamerica, stretto da una situazione debitoria allarmante e, soprattutto, privo di un sostegno internazionale, verso un piano di trivellazioni estensive.

Il Parco Nazionale Yasuní, che si estende su una superficie di circa 10 km quadrati, in piena Foresta Amazzonica, 250 chilometri circa a sud est della capitale Quito, è ora a forte rischio. È la solita storia della maledizione delle risorse che colpisce tanti Paesi in via di sviluppo e piuttosto che renderli ricchi, puliti e autosufficienti, li affossa in una situazione di impoverimento, di inquinamento, di instabilità politica oltre a mettere in pericolo alcuni dei luoghi più ricchi di biodiversità del Pianeta.

Ma andiamo per ordine.

Il Parco Nazionale Yasuní sorge in una area di lussureggiante foresta amazzonica, vicino ad alcune delle ultime popolazioni indigene della Terra che vivono in isolamento. Nel sottosuolo di questa meravigliosa zona si è scoperto che giace una quantità enorme di petrolio e nel 2007, l’allora presidente Rafael Correa, propose un’alternativa all’estrazione del petrolio che prevedeva la creazione di un fondo di 3,6 miliardi di dollari al quale avrebbero dovuto contribuire nazioni di tutto il mondo, destinato a controbilanciare la scelta dell’Ecuador di lasciare intatte le sue riserve fossili.

Subito, da molti Paesi occidentali, americani e asiatici, l’idea fu accolta con grande entusiasmo: per la prima volta un Paese in via di sviluppo avrebbe ricevuto un compenso per aver rinunciato a sfruttare risorse fossili e creato, così, un precedente nella letteratura degli sforzi concreti delle nazioni per ripulire il Pianeta e preservare popolazioni indigene e biodiversità.

Sono passati mesi, poi anni, ma il fondo continuava a registrare pochissimi contributi.

Nel frattempo l’Ecuador aumentava il suo debito pubblico e attraversava fasi di crisi economica pesanti che lo hanno condotto a una situazione grave. Tra gli indicatori peggiori, il fatto che un bambino su quattro soffra di malnutrizione. Oggi, quindi, a 16 anni dall’inaugurazione del progetto, i leader politici innescano una clamorosa marcia indietro affermando di non poter rinunciare ai soldi del petrolio in un Paese che rischia il tracollo. Squadre di trivellatori hanno quindi preso d’assalto la zona, avvicinandosi pericolosamente a una area off-limits destinata a proteggere i gruppi indigeni.

Per Morley Read, uno zoologo che ha condotto lo studio su rettili e anfibi intercettato dal New York Times «sarà un altro disastro completo». Anche le persone sono a rischio. A Yasuní, un numero imprecisato di uomini, donne e bambini vive nel cosiddetto isolamento volontario, rifiutando il contatto con il mondo esterno.

E così, anche l’Ecuador, come la Repubblica Democratica del Congo e tanti altri Paesi americani, africani e asiatici, finiscono per rivolgersi con sempre maggiore frequenza verso l’estrazione del petrolio, in aree che risultano essere gli ultimi grandi polmoni verdi della terra: la Foresta Amazzonica o il bacino del Congo, l’ultima foresta pluviale sulla Terra che aspira più carbonio di quanto ne rilasci ed è seconda solo all’Amazzonia per dimensioni. Proprio in una fase in cui l’Agenzia Internazionale per l’Energia afferma che i Paesi devono fare di tutto per bloccare nuovi progetti per evitare cambiamenti climatici catastrofici.

È il dilemma dei nostri tempi che perpetua una delle più grandi ingiustizie della storia: i Paesi in via di sviluppo, come è noto, sono i meno responsabili del cambiamento climatico ma ne pagano le peggiori conseguenze. L’Ecuador lo aveva compreso. Ma la cecità delle nazioni e la mancanza di solidarietà hanno fatto il resto.

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