Economia

Guerra tecnologica: cosa ci insegna la storia?

Mentre Cina e Usa sono pronte a darsi battaglia nel settore dei chip, si profilano nuovi equilibri internazionali. Cerchiamo di capire cosa sta accadendo
Credit: DeepMind/unsplash
Tempo di lettura 5 min lettura
17 gennaio 2023 Aggiornato alle 08:00

«La globalizzazione e il libero scambio sono quasi morti». Lo ha affermato Morris Chang, fondatore della Tsmc (Taiwan Semiconductor Manufacturing Company) una delle più grandi aziende produttrici di semiconduttori a livello globale con sede a Taiwan. La frase è stata pronunciata lo scorso dicembre in occasione di un evento in Arizona per celebrare l’apertura di una nuova fabbrica e un investimento di 40 miliardi di dollari negli Stati Uniti.

Indubbie sono le differenze politico-economiche rispetto a quasi 30 anni fa, quando il signor Chang apriva il primo impianto negli Stati Uniti. L’industria tecnologica è attualmente guidata da 3 Paesi: Taiwan, leader della produzione di semiconduttori; Stati Uniti, per lo sviluppo dei software; Cina, maggiore produttore ed esportatore di terre rare. Tuttavia, al momento un’alleanza tra i 3 è ben lontana (viste anche le recenti pressioni della Cina verso Taiwan) e l’America agisce “a suon di atti” per limitare la Cina e mantenere il primato di superpotenza.

I chip rappresentano, difatti, l’arma di battaglia tra Usa e Cina per la supremazia tecnologica ed è proprio questa “guerra di chip” a spiegare la volontà dell’azienda taiwanese di prendere le distanze dalla Cina, cercando al tempo stesso soluzioni e alleanze adeguate per superare le difficoltà di approvvigionamento.

Il primo grande imprevisto è stato determinato dal Covid e dai conseguenti lockdown, che hanno rallentato la catena di approvvigionamento. A peggiorare la situazione è stata poi l’invasione Russa, con le conseguenti politiche di controllo sull’esportazione di prodotti sensibili. Una situazione che sembra coglierci alla sprovvista, ma che in realtà non è poi così lontana da argomenti ed eventi studiati e analizzati già in passato.

Le politiche e le regolamentazioni industriali sono un argomento di grande complessità, le cui prospettive sono abituate a danzare sul filo di un rasoio, spesso in bilico tra protezionismo e mercato libero. Alexander Hamilton, primo Segretario al Tesoro americano ed esponente di una politica economica a tutela della produzione nazionale, ha una teoria: la Teoria delle imprese nascenti, ripresa in seguito da diversi economisti.

Questa evidenzia le problematiche delle nuove imprese che si affacciano sul mercato: spesso non hanno le competenze, i finanziamenti o l’organizzazione necessaria per operare con successo. Insomma, le aziende nascenti non possono sfruttare quelle economie di scala che permettono agli operatori stranieri di essere più competitivi e performanti.

Un’idea costosa nel breve periodo, in quanto implica protezione e tutela da parte dello Stato dalle imprese straniere tramite dazi o sussidi, ma che secondo Hamilton risulterebbe poi vantaggiosa nel lungo periodo. In effetti, dagli anni ‘70 in poi, si è appreso come l’America, che era la prima esportatrice di chip per computer, sia stata surclassata dal Giappone. Quest’ultimo ha effettuato ingenti investimenti in ricerca nel settore e ha sostenuto le nuove attività spingendo i consumatori di chip giapponesi a preferire la produzione interna a quella importata dall’America. Un effetto ottenuto grazie alle competenze acquisite dalle imprese giapponesi come evidenziato da Richard Baldwin e Paul Krugman, docenti rispettivamente al Graduate Institute di Ginevra e alla City University di New York.

Una situazione analoga è quella della Cina, che ha superato il Giappone grazie allo stanziamento, da parte del Governo, di sussidi per i cantieri navali, registrando così una riduzione dei costi del 20% tra il 2006 e il 2012.

Se questi esempi dimostrano il grande potere dell’intervento statale nell’economia e provano come questa possa beneficiarne, il rischio però rimane dietro l’angolo. Interventi esterni possono intaccare un processo automaticamente funzionante: molte imprese, in molti settori, producono un bene (output) che è destinato a entrare in un altro processo produttivo (input). In questo modo, i costi rischiano di aumentare e i consumatori di subirne il peso, riportando questi danni sulla domanda e sui consumi.

Bruce Blonigen, docente alla University of Oregon, ha studiato gli interventi effettuati dai Governi in 21 Paesi per la promozione delle industrie siderurgiche nazionali ed ha evidenziato una riduzione della competitività delle esportazioni delle industrie più vicine ai consumatori laddove i Governi nazionali hanno agito maggiormente.

E se sembra che Paesi come America, Francia e Germania si siano rinforzarti dal punto di vista economico tramite l’applicazione dei dazi, secondo Douglas Irwin - docente del Dartmouth College - decisivi nell’ascesa del potere industriale americano non sarebbero state le barriere tariffarie, bensì le leggi bancarie capaci di incentivare il risparmio e gli investimenti.

La storia, i dati, le ricerche ci permettono di acquisire una pluralità di informazioni che ci fanno ben sperare, ma anche preoccupare. Il rischio è da una parte quello di non garantire la tutela delle aziende nazionali, esponendole a una concorrenza feroce, e dall’altro di danneggiare i consumatori. «L’aspettativa è quella di avere successo - continua Chang riferendosi al rapporto Usa -Taiwan - ma c’è del duro lavoro da fare».

L’obiettivo è ovviamente una crescita dell’azienda, ma in questa relazione si intravedono interessi che vanno ben oltre il settore tecnologico. Certo è che questi 2 Paesi si sono assicurati un’arma strategica in un sistema in grande difficoltà.

Leggi anche
tecnologia
di Valeria Pantani 2 min lettura
Il lockdown a Shanghai
censura
di Valeria Pantani 3 min lettura