Storie

Dietro i “pezzi di carta” ci sono pezzi di vita

In occasione della Giornata Internazionale dell’Istruzione, Cimea – l’ente che si occupa di riconoscere i titoli di studio stranieri – spiega a La Svolta le difficoltà e le prospettive di chi vuole studiare e lavorare in Italia
Credit: Samuele Giglio/unsplash
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 9 min lettura
24 gennaio 2023 Aggiornato alle 14:00

«A volte ti trovi davanti persone e situazioni che ti fanno capire che non stai valutando “pezzi di carta”, ma pezzi di vita». Dal 2022 Luca Lantero è il Direttore Generale di Cimea, il Centro Informazione Mobilità ed Equivalenze Accademiche che si occupa della valutazione e della comparazione dei titoli esteri per tutti gli individui che intendono proseguire il loro percorso di studi o entrare nel mercato del lavoro in Italia. In occasione della Giornata Internazionale dell’Istruzione, Luca Lantero racconta a La Svolta le iniziative promosse da Cimea, l’ente nato nel 1984, 3 anni prima del programma Erasmus, su impulso di quello che all’epoca era il primo aspetto embrionale di Unione e Commissione Europea: «Da pionieri, abbiamo portato avanti sia la parte del riconoscimento dei titoli che quella della mobilità, nella prima idea di Europa che si poneva delle problematiche di scambi a livello di formazione universitaria», spiega Lantero.

Che cosa comporta riconoscere titoli di studio in Italia?

Due cose: dal punto di vista legale, la produzione degli effetti del titolo estero che, grazie alle procedure sviluppate a livello dell’UE, ma anche del cosiddetto Processo di Bologna del 1999 (che riformò i sistemi di istruzione superiore dell’UE per costruire uno Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore, ndr), permette l’accesso a quel corso, a quel concorso, o lo svolgimento di quella professione regolare. E poi è l’espressione di un diritto fondamentale, così come il diritto alla salute o quello alla sicurezza. È stato sancito dalla Convenzione di Lisbona (sul riconoscimento dei titoli di studio relativi all’insegnamento superiore nella Regione europea, ndr) e poi ratificato nel 2002 nel nostro ordinamento. Prima esistevano procedure molto lunghe su base bilaterale tra i Paesi, o più generali di equipollenza (da “equipollere”, cioè far riconoscere a tutti gli effetti). Oggi, per esempio, anche se i master degree esteri hanno una durata inferiore rispetto alle nostre lauree magistrali, questo non costituisce una differenza sostanziale per negare il riconoscimento del titolo. La differenza sostanziale, per esempio, è data dal livello: con un bachelor (la nostra triennale) non si potrà mai accedere a un dottorato in Italia, perché è necessario un titolo di secondo ciclo.

Quindi non ci sono differenze sostanziali tra i titoli provenienti dall’Europa piuttosto che da zone extraeuropee?

La Convenzione di Lisbona è un trattato promosso dal Consiglio d’Europa e dall’Unesco, a cui aderiscono 46 Paesi, anche al di fuori della regione europea: Stati Uniti, Canada, Nuova Zelanda, Australia, ecc. Quindi l’Italia applica a tutto il mondo le stesse regole: se io ho un titolo spagnolo, o un titolo albanese, verranno metodologicamente trattati alla stessa stregua. Pochi mesi fa è entrata in vigore una norma che ha esteso l’applicazione in ambito di riconoscimento per finalità accademiche e non anche a qualifiche provenienti da paesi non afferenti alla Convenzione di Lisbona.

E allora quali sono le difficoltà per chi presenta richiesta di riconoscimento?

La documentazione da produrre. Se il richiedente proviene da Paesi più vicini a noi, dove magari non ci sono legalizzazioni da produrre o abbiamo più contatti diretti, è molto più semplice. A volte capita di non avere riscontri di fiducia, quindi riconoscere un titolo iracheno, vietnamita, o afghano è più complesso rispetto a un titolo francese. Oggi, per esempio, con la situazione attuale in Afghanistan, molti centri hanno interrotto la riconoscibilità dei titoli afghani. “Noi non siamo in grado di riconoscere con certezza che questi titoli siano stati ottenuti”, dicono. E questo è un grande problema.

Quali sono le difficoltà con l’Afghanistan?

I nostri contatti diretti con il Paese, nell’ultimo periodo, hanno iniziato a chiederci dei dati sulle persone che ci presentavano i titoli. Dati che ovviamente noi non diamo e non vogliamo dare. Inoltre, mancano alcune informazioni che prima erano online e adesso non ci sono più, ma riusciamo a trovarle tramite alcuni sistemi digitali, verificando con i pregressi storici delle pergamene se è tutto in linea con gli standard. Nelle situazioni di crisi, purtroppo, quando non è possibile effettuare queste verifiche, determinati soggetti o istituzioni sfruttano l’occasione per produrre, proporre o vendere titoli fasulli.

Accade spesso?

La contraffazione dei titoli si aggira intorno al 12% dei casi che riceviamo. Può verificarsi quando qualcuno realizza un titolo falso da un’università che esiste, oppure mostra titoli ottenuti realmente ma con dati modificati, (ad esempio, se mi chiedono un certo livello di inglese e io lo alzo, ho veramente ottenuto il titolo, ma ho contraffatto ma documentazione accademica), o presenta titoli rilasciati da istituzioni non riconosciute, non accreditate da nessun sistema: sono le cosiddette diploma mills.

Quando non riuscite a verificare, che cosa fate?

Non accettiamo la richiesta e informiamo la persona sui motivi per cui non riusciamo a farlo, contattando anche l’istituzione in cui vuole fare domanda, e aiutando l’istituzione a comprendere il grado di fiducia che può dare alla documentazione che ci è stata fornita. Anche se non abbiamo un riscontro diretto, o un database ufficiale, abbiamo comunque dei gradi di fiducia documentale dati dall’esperienza dei Credential Evaluator (figure professionali che si occupano del riconoscimento dei titoli di studio: sono oltre 300 in tutta Italia, ndr), che ci permettono di dire se ci sono i livelli per cui, a nostro giudizio, non ci sono problematiche.

Di quanti casi vi occupate?

Nel 2022 abbiamo ricevuto 55.000 richieste valutative (tra cui anche quelle che provengono da altri enti, che non prevedono il rilascio di un attestato) rilasciando 17.320 attestazioni di Cimea, con 11.839 attestati di comparabilità, che inquadrano i titoli di studio esteri all’interno del sistema italiano di istruzione superiore, e 5.481 attestati di verifica, che certificano l’autenticità del diploma estero di laurea. Tra i primi 10 Paesi da cui provengono le domande ci sono Pakistan, Bangladesh, India, Stati Uniti, Iran, Regno Unito, Afghanistan, Ucraina, Cina e Camerun.

Ognuno ha un senso logico: il Pakistan, per esempio, da cui abbiamo ricevuto 1895 richieste, è primo perché la nostra rappresentanza rilascia i visti sulla base anche di una nostra valutazione dei titoli, perché sa che questo Paese ha delle problematiche sia di sistema - con titoli che non consentono l’ingresso, a volte, all’istruzione superiore e bachelor di soli 2 anni - sia di istituzioni non accreditate. Certamente, poi, l’Italia attrae molto gli studenti stranieri. Se non registriamo molte richieste dai Paesi dell’Unione europea non è perché non riceviamo titoli da lì, ma perché tutti partecipiamo al processo di Bologna e abbiamo il Diploma Supplement, per cui l’istituzione stessa rilascia della documentazione che è già standardizzata.

In classifica, però, ci sono alcuni Paesi che aderiscono al Processo di Bologna. Come mai?

Nonostante il Regno Unito ne faccia parte, così come l’Ucraina, noi valutiamo le qualifiche britanniche che vengono rilasciate in altri Paesi. Il diploma britannico consegnato dal Cambridge Assessment International Education viene preso da molte persone in Pakistan e Malesia, per esempio. Lo stesso vale per gli Stati Uniti. Per quanto riguarda l’Ucraina, le richieste sono aumentate esponenzialmente per la guerra: sono state 521. Ma in questi numeri non ci sono le attestazioni riferite ai rifugiati.

Perché?

Sono richieste che registriamo a parte perché hanno un canale a sé: le attestazioni per rifugiati e detenuti sono gratuite, non carichiamo alcuna tassa al detentore del titolo, ed è sempre stato così. È una volontà diretta di Cimea, un’operazione che, però, deve essere sostenibile per noi: oggi valutiamo circa 2500 qualifiche l’anno gratuitamente, ma non riusciremmo a farlo anche ai richiedenti asilo, proprio perché non abbiamo fondi per questo servizio. Nel caso dei richiedenti asilo supportiamo le istituzioni con i nostri pareri, ma non riusciremmo a sostenere i costi delle attestazioni.

Quale sarebbe il costo standard?

150 € ad attestazione di comparabilità e 65 € ad attestazione di verifica. In generale, per tutti i richiedenti, se si tratta di soldi per l’iscrizione all’università, gli atenei che hanno accordi con noi li scalano dalle tasse quando li immatricolano. Inoltre, noi lavoriamo solo con gli originali, quindi non chiediamo traduzioni, dichiarazioni consolari e altri documenti che comporterebbero ulteriori spese: abbiamo le competenze linguistiche per la lettura di tutti i tipi di titoli del mondo, e quando ci manca una singola lingua abbiamo una banca dati con attestazioni dagli anni ’80 a oggi, con i format di qualsiasi titolo.

Per il popolo ucraino, nel 2022, avete pensato a qualche agevolazione?

Abbiamo realizzato una guida sia a beneficio delle università italiane che delle istituzioni universitarie europee per aiutarle a valutare i titoli ucraini anche senza la presentazione documentale, perché l’Ucraina ha un livello di digitalizzazione molto alto. Significa che i loro titoli di scuola secondaria sono presenti in un sistema online che è stato salvato e messo in sicurezza una volta scoppiato il conflitto: è come una sorta di spid. Il progetto European Qualifications Passport for Refugees (passaporto europeo delle qualifiche dei rifugiati) consente ai rifugiati di poter richiedere il riconoscimento del loro titolo di studio anche in caso di documentazione parziale o assente.

Questo fa sì che anche se una persona scappa senza documentazione, noi possiamo elettronicamente risalire ai suoi titoli. Gli effetti della digitalizzazione sul nostro settore sono fondamentali: e ci consentono anche di avere la meglio su alcune problematiche di crisi. In Afghanistan è stato più complesso perché non esiste questo sistema. E qui potremmo pensare che riguardi quei Paesi non avanzati tecnologicamente, ma non è così: negli Stati Uniti, dopo una serie di uragani, sono andati distrutti centinaia, se non migliaia di archivi di università, istituzioni o college con tutte le informazioni di studenti. E la maggior parte non erano digitalizzate.

Finora c’è stata qualche storia che l’ha colpita particolarmente?

Ne sono passate tantissime, così tante che a un certo punto capisci realmente che non stai valutando solo il titolo, il cosiddetto “pezzo di carta”, ma pezzi di vita: dire di no significa eliminare qualsiasi possibilità, per questo bisogna agire con delicatezza. Tempo fa, un ragazzo somalo aveva presentato un titolo di scuola secondaria a un’università, ma si trattava di un documento provvisorio. Noi l’avevamo valutato, era valido e veritiero, ma l’ateneo voleva quello finale. La Somalia è un Paese con un sistema molto difficile, in cui si registrano molte contraffazioni. Dopo un mese, il ragazzo presenta all’Università il certificato finale, ma stavolta falso: l’aveva comprato.

Non potendo tornare in Somalia, e avendo già un titolo valido, aveva cercato il modo più semplice per rispondere a questo aspetto burocratico. A quel punto che succede? Giudichiamo l’azione oppure l’ottenimento del titolo veritiero? Alla fine l’università ha deciso di valutare il fatto che il primo titolo consegnato fosse valido, per fortuna. E poi ricordo un ragazzo rifugiato appassionato di cartoline: “Ho capito che il mio titolo di studi era una cartolina, ma senza francobollo”, diceva. “Il francobollo è la vostra attestazione che mi consente di spedire il mio titolo e di presentarlo ovunque”. Lì capisci che dietro a un titolo c’è sempre una vita.

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