Diritti

Trump e Bolsonaro, gemelli diversi

L’assalto ai palazzi del potere brasiliani ricalca quello al Campidoglio statunitense del 2020. Tutto ciò non stupisce: i due ex presidenti hanno portato avanti strategie e linee politiche affini
US President Donald J. Trump (R) and Brazilian President Jair Bolsonaro (L) depart after speaking at a press conference in the Rose Garden of the White House in Washington, DC, USA, 19 March 2019.
US President Donald J. Trump (R) and Brazilian President Jair Bolsonaro (L) depart after speaking at a press conference in the Rose Garden of the White House in Washington, DC, USA, 19 March 2019. Credit: EPA/JIM LO SCALZO
Tempo di lettura 7 min lettura
15 gennaio 2023 Aggiornato alle 06:30

Che Bolsonaro avrebbe seguito le orme di Trump sembrava quasi scontato.

Decaduto dalla carica presidenziale dopo anni di supporto a teorie negazioniste e complottiste, aveva da tempo costruito le basi per un’insurrezione pubblica attraverso i social network che già nel 2019 lo aiutavano a rendere di tendenza un approccio politico che istigava dubbi e resistenze nei confronti della magistratura.

Inutile dirlo, la piattaforma prediletta da Bolsonaro è anche quella favorita da Trump: Twitter, che permette di scrivere messaggi repentini e condensati, in grado di creare rottura e polemica e di dividere l’opinione pubblica in maniera così efficace da valere il tempo di politici e dei loro spin doctor.

La stessa campagna elettorale di Bolsonaro si è retta su questa comunicazione dal basso capace di far percepire un candidato presidente vicino e affine, come un amico o un parente.

L’ex presidente brasiliano ha sempre usato i social proprio per aumentare questa illusione di vicinanza, rivolgendosi ai propri seguaci fidelizzandoli. Una strategia che alla prova dei fatti si è rivelata un ottimo lavoro di influencer marketing, molto affine a quello di Trump.

Dopo anni di parole e scelte che mettevano in discussione qualsiasi autorità che non fosse quella presidenziale, il pubblico - elettore ha rigettato completamente l’esito elettorale, scendendo fisicamente in campo nel tentativo di ribaltarlo. Suona familiare?

Nonostante siano passati più di 2 anni, le pittoresche immagini dell’invasione del Campidoglio Usa di uno zoccolo duro di trumpisti, sono difficili da rimuovere dalla mente. Non solo per la scelta di abiti di Jacob Chansley, quanto piuttosto per la consapevolezza che nel 2020 un’elezione statunitense è stata riconosciuta non valida da un gruppo di persone che nulla accetta se non la parola - e quindi la rielezione - del proprio leader.

Pensare che sia bastato l’incentivo a combattere per far scoppiare una rivolta del genere è indicativo del lavoro che l’ufficio stampa dell’ex-presidente statunitense ha svolto prima, durante e dopo il mandato, a partire dalla pandemia.

Trump e Bolsonaro si sono infatti distinti per la tendenza chiara a considerare il Covid-19 alla stregua di una bufala, consapevoli che alimentare i complottismi significa attrarre una fetta di elettorato che altrimenti sarebbe completamente disincentivata a prendere parte al processo democratico. Una nicchia di scettici molto nutrita che spazia dal rigetto delle nozioni basilari e provate di astronomia e fisica (terrapiattismo) a quelle relative alla natura dei governanti e del potere globale (deep state, QAnon).

Attingere a quella nicchia è una mossa tattica, poiché si tratta di rivolgersi a persone a cui normalmente non parla nessuno. Isolate e desiderose di essere in qualche modo riconosciute, hanno trovato in Trump e Bolsonaro i loro paladini della giustizia, da seguire senza se e senza ma. Unendo a questo la tendenza a usare orpelli retorici per legittimare politiche razziste, omofobe e sessiste, il tasso di aggregazione aumenta perché porre discriminazioni di fatto sullo stesso piano di un’ideologia permette di confondere i livelli, trasfigurando atti illegali di negazione della dignità umana in mere posizioni politiche.

Costituendosi come vittima pronta al martirio nel nome di una causa superiore spinge gli elettori a credere di essere davvero di fronte a una figura abnegante e pronta a tutto per fare i loro interessi. Che poi si tratti di persone disastrosamente ricche che hanno optato per una progressiva riduzione del welfare, dei diritti civili e della salute ambientale, con innegabili effetti di breve, medio e lungo periodo anche sugli stessi elettori, poco importa, ciò che conta è quello che si dice, come e quando.

Rilevante poi è anche il contro chi. Donne, persone non eterosessuali e comunità razzializzate sono un bersaglio importante dei discorsi e della propaganda, che attinge a piene mani allo stereotipo del maschile bianco egemone che proietta forza distruggendo gli altri, considerati in qualche modo inferiori.

In questo modo si giunge alla frattura tra le persone a cui parlano e quelle di cui fanno i reali interessi: si rivolgono con insistenza alla comunità bianca, anche povera, religiosa, pur facendo unicamente gli interessi del percentile più ricco del territorio. Si raccontano come uomini del popolo nonostante all’atto pratico abbiano porzionato lo stesso popolo allo scopo di estrarne voti. Voti che non sono per il partito o per l’idea, ma per il leader in quanto tale, unico e solo.

Questo è un altro punto in comune tra i due politici, il personalismo attuato con un tipo particolare di propaganda, in questo caso politica, il cui scopo è far coincidere la scelta elettorale con la persona stessa. Le ideologie, i credo e i valori vengono trasfigurati e infusi nella persona, che diventa il centro nevralgico del percorso politico di partito - fino all’arrivo di un candidato migliore - e delle idee stesse. Ciò agevola il superamento delle barriere ideologiche, spostando verso lidi inesplorati chi viene catturato da questa prosopopea personale.

Non esiste altro politico al di fuori del leader, la cui parola è verità in un mare di menzogne. E non è un caso che si tratti di un’adorazione simil-religiosa, anzi, è proprio una conseguenza ricercata.

Nulla infatti crea comunità e legittimazione più della collusione tra politica e religione. L’ultra-destra ha da tempo sposato questa adesione valoriale proprio per coprire il vuoto ideologico che la caratterizza e per ottenere una posizione quasi sacrale agli occhi degli elettori. La parola della religione giustifica in maniera assoluta atti terrificanti. La storia è piena di esempi a cui attingere, a partire dalle crociate.

Con la religione portata in palmo di mano sui piedistalli della politica, Trump e Bolsonaro hanno potuto presentarsi come portatori di giustizia e verità, velleità messianiche strettamente funzionali all’acquisizione di voti e non solo.

Entrambi infatti si sono appoggiati ad alcune delle lobby religiose più potenti dei rispettivi territori. La chiesa evangelista bianca gode di estremi privilegi, primo fra tutti quello di poter smuovere una nutrita massa di fedeli in caso di appoggio elettorale. Supporto che sia Trump che Bolsonaro hanno solidificato, nonostante abbiano stili di vita e comportamento che hanno poco a che fare con la morale religiosa.

Bolsonaro, in particolare si è fatto addirittura battezzare, un gesto simbolico che ha consacrato la sua politica con l’evangelismo. Xenofobo e ricco, l’evangelismo brasiliano gode di un ulteriore potere a cui l’ex-presidente ecocida e genocida (con riferimento ai tentativi di eradicazione delle popolazioni indigene amazzoniche) non ha voluto rinunciare: il legame con il mondo criminale, direttamente impiegato nella distruzione dell’Amazzonia e nei traffico regionali.

Appare chiaro quindi come la costruzione dell’elettore passi attraverso un calcolo quasi matematico di acquisizioni demografiche possibili solo grazie all’assenza di ideali mutualisti o civili. Dopotutto è il leader ciò che conta. Tutti gli altri devono solamente curarsi di fare la giusta scelta in sede elettorale. E nel caso non lo facessero ci sono sempre due opzioni gradite a entrambi, i brogli elettorali o la contestazione del risultato democratico.

Anni di presidenza e quasi un decennio di campagna elettorale hanno tolto altro alla comunità politica il proprio bacino di utenza, la fiducia in qualsiasi altro fattore che non siano i leader. Democrazia compresa. Infatti, quando questa non riconosce la vittoria del leader subentra il rifiuto, perché se la parola del leader è legge, allora nulla che le va contro può essere tollerato.

Anche le alleanze politiche internazionali sono riflesso di questa modalità orientata al personalismo. Osservando la loro politica estera appare chiaro il desiderio di apparire forti e di stringere la mano con vigore ad altri leader unici e xenofobi, assorbendone per osmosi il potere e proiettandolo su un elettorato stanco, senza appigli se non la mano finalmente tesa dal leader.

E per raggiungerla, dopo anni di promesse e incentivi, dopo continue rassicurazioni sul fatto che nulla se non una vittoria del leader li metterà al sicuro, dopo una serie di crisi inscatolate le une nelle altre, gli elettori sono disposti a tutto. Persino a insorgere nel nome di un genocida.

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