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La trappola della perfezione

Pensiamo che nulla sia mai abbastanza: per questo, siamo diventati consumatori seriali e iper produttivi. Incastrati in un’ambizione irraggiungibile, rischiamo di perdere tutto, persino noi stessi
Sasha Kim/ Unsplash  
Sasha Kim/ Unsplash  
Tempo di lettura 7 min lettura
8 gennaio 2023 Aggiornato alle 06:30

Il desiderio di immunità è qualcosa di tipico, soprattutto post 2020. E potrà pure sembrare naturale, non fosse che non si tratta di mera immunità fisica, quanto piuttosto di immunità dall’errore. Siamo precipitati nella voragine della perfezione.

Un gorgo di participi passati che trasuda definizione permanente, compiuta. Ma l’umano, che è compiuto solo da morto, non può essere perfetto. Per natura, impreciso e irregolare, nelle discrepanze esso trova vocazione e massima espressione, ma in un sistema atomizzato anche la natura umana deve essere soppressa. E per addomesticarla non c’è nulla di più funzionale dell’educazione al perfezionismo. Perché se c’è una metà, inevitabilmente c’è un percorso, un cammino di fallimenti e inadeguatezze su cui incanalare l’umanità per spingerla a correre, smodatamente, verso un luogo in cui non potrà mai arrivare.

L’imperativo massimo non è lavorare di più, bensì “non stai lavorando abbastanza”.

Si accendono gli schermi, è mattina e ancora non sono iniziate le ore d’ufficio, ma poco importa. Bisogna portarsi avanti, anzi, far vedere che ci si è portati avanti, perché il posto di lavoro deve essere meritato. E il merito sta nell’abnegazione, nel sacrificio del tempo privato per quello del lavoro. Nel riconoscere la retribuzione non tanto come qualcosa di dovuto, a prestazione effettivamente prestata, quanto piuttosto come una conquista costante. E dunque, si aprono i laptop e si riprende da dove si aveva lasciato la sera prima, nel tentativo di anticipare il portarsi avanti. Lavorare non più per qualcosa, ma per meritare il lavoro, così si chiude la trappola del capitalismo che si è preso anche il desiderio di esistere fuori dal lavoro.

La prestazione è la misura della persona, il margine con cui viene posta sulla bilancia dello status sociale. Non è più una questione di stipendio e potere d’acquisto, non per la classe media o per gli invischiati nella gig economy, ma di performance eccelsa. La migliore, se possibile, e per questo dannarsi e dannarsi ancora, sentendo il peso di un traguardo inarrivabile. Nulla sarà mai abbastanza, e se nulla di ciò che è prodotto o fatto dalla persona lo è allora anche questa non è sufficiente o adeguata.

La perfezione infatti non sta solo nel lavoro, consegnato a modino, ma anche in chi quel lavoro lo compie, nel corpo che abita, nelle scelte d’acquisto, nel gusto personale, nelle amicizie e nelle frequentazioni amorose. Nel partner si investe molto della propria accettazione sociale. Ed è perciò importante che la performance sia vincente, adatta alla situazione e a produrre quell’ammirazione che sola è indicatrice di avvicinamento alla perfezione. La stessa relazione è posta sotto osservazione, la scelta del posto in cui trascorrere le vacanze, i regali ricevuti, il matrimonio se si ha il diritto di pianificarlo.

Tutto deve tendere al meglio, altrimenti meglio evitare. E quindi chiudere, rimuovere il partner o disperarsi perché questi si è rimosso da solo, esasperato da un recita maniacale. O peggio rimanere insieme, e ripetere a memoria la parte ognuno per sé contentando l’altro con una prestazione da standing ovation.

C’è poi un grande impiccio alla perfezione, tutto umano. La decadenza del corpo. Nasciamo stravolti dal passaggio nel canale vaginale, le teste schiacciate e il volto contratto o liscissimi dal cesareo, che però ha tracciato un sorriso di sangue sull’addome di chi ci ha partorito.

Da lì cresciamo, prendiamo forma e la viviamo, capendo da subito, da quei vestitini divisi per genere, che c’è una pressione su come siamo e come dovremmo essere. Una pressione che diventa fisica e tangibile, quasi l’aria si stringesse intorno ai nostri corpi come pellicola trasparente. Soffocare è un attimo. Perciò meglio correre ai ripari e proiettarsi al meglio, trucco e filtro digitale, fino a quando l’asimmetria del naso non diventa insostenibile e la pellicola riprende a essere tesa.

Stringente ci pesa e inclina, mostrandoci allo specchio quanto poco siamo perfetti, e dunque il volume della nostra imperfezione, che fa rima con bruttezza ma non si dice più. Perché la nuova lingua del capitale, il nuovo gergo di sistema, ha scelto di parlare di perfezionismo. Dunque, taglia e cuci, passa la carta, digiuna e bevi diuretici, paga con paypal, spacca e scolpisci, attiva il finanziamento, e intanto lavora, anzi, torna al lavoro prima della fine dei giorni di riposo post intervento.

Il perfezionismo è assetato e insaziabile. Sui giornali e sui social ci sono solo premi per le ottime prestazioni - persone- quelle che si sono laureate in ingegneria mentre si allenano per una gara olimpionica e curavano la stesura del loro primo romanzo autobiografico di 800 pagine. Il tutto a 20 anni, perché i giovani prodigi stanno meglio in copertina. E dunque ambire a essere perfetti come tensione morale, come principio guida di una vita retta e degna. Meritevole.

Ma dunque che accade nella corsa? Scorre il tempo e il tempo umano stringe. Si assottiglia, assorbito dall’impegno a dare e fare di più. Il tempo scorre, accompagnato da un’altra erosione, quella della salute della mente che si incrina e accartoccia, come un un vecchio scontrino nella tasca. Si ritorce su sé stessa e si morde da sola, commiserando la sua fallibilità e rivolgendo un desiderio ossessivo a quel traguardo perfetto.

Nulla di ciò che quella mente stanca e martoriata ha per le mani, somiglia poi tanto a quella perfezione irraggiungibile. L’ansia congela le forze, blocca le grida in gola e le fa uscire come rauchi ruggiti, affamati d’aria. Dunque, scatta la trappola.

Se nulla è abbastanza, allora nulla ha diritto di esistere. Ci si nega ambizioni sane per quelle inarrivabili, ci si mortifica per errori comuni ritenendoli imperdonabili segni della nostra personalissima inadeguatezza. Si rimane soli. Che se solo provassimo a vedere oltre le menzogne patinate di esistenze impossibili per la maggior parte di noi, vedremmo quanti siamo. E forse ci fermeremmo ad ascoltarci, a dirci l’un l’altro che non siamo poi così male. Ci sentiremmo riflessi e compresi, per la prima volta pronti a capire che la perfezione, i nasi dritti e simmetrici con zigomi alti e addomi piatti, stipendi da capogiro, cani dal pelo sempre in ordine, vite sessuali scandite dal rintocco dell’aspettativa e compagni a loro volta perfetti non esistono.

La superficialità del perfezionismo riflette la sterile ambiguità del sistema che lo idolatra, perché dopotutto si basa sull’allucinare costante di un giudizio esterno. Se siamo però così sommersi da noi stessi da non perdonarci nemmeno l’ordinario, come possiamo pensare che gli altri abbiano il tempo per misurare la nostra imperfezione? Semplicemente perché noi per primi lo facciamo, in un tiro alla fune con l’odio per noi stessi e l’invidia verso gli altri, sperando di saggiare un giorno i fasti del trionfo.

Purtroppo però, stiamo galleggiando in un limbo di dolente insoddisfazione, abbeverati da un sistema che necessità dello stordimento del dolore per ottenere abnegazione e devozione assoluta. Per estrarre da noi quanto serve senza che noi abbiamo il tempo o la sensibilità di accorgercene.

È una trappola localizzata, geograficamente centrata là dove scorrono gli iper-consumi, dove si tentano le iper-performance e dove si sceglie un’iper-realtà. Si delinea una geografia umana che attanaglia tutti gli abitanti, certo, ma alcuni più di altri. Colpiti per differenza, squalificati in partenza per aspetto o origine, per classe di appartnenza, per sesso e identità.

La nostra colpa è l’imperfezione, l’onta che vogliamo lavorare, il peccato che crediamo di dover espiare.

Quando invece, sta nell’irregolare forma della vita umana la sua straordinaria, portentosa, bellezza.

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