Ambiente

È vero che le azioni dimostrative “estreme” allontanano il pubblico dalla causa?

Vernice su Palazzo Madama, zuppa di pomodoro sui Girasoli, purè di patate sui Covoni di Monet. I ricercatori stanno studiando l’effetto di questi gesti sull’opinione pubblica
Credit: Thomas Krych/ ZUMA Press Wire
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 7 min lettura
3 gennaio 2023 Aggiornato alle 22:00

«Questo non è il modo giusto di protestare. Facendo così, l’unico risultato che ottengono è allontanare ancora di più le persone dalla causa». In estrema sintesi, è questa la risposta che – declinata in tante, tantissime varianti, più o meno violente – riecheggia nel dibattito pubblico e virtuale dopo le azioni “estreme” e “provocatorie” di attivisti e attiviste per il clima legati a gruppi di azione come l’inglese Just Stop Oil e l’italiana Ultima Generazione.

Mani incollate alla Primavera del Botticelli. Zuppa di pomodoro sui Girasoli di Van Gogh (o, più precisamente, sul vetro protettivo). Blocchi stradali sul già bloccatissimo GRA. Purè di patate sui Covoni di Monet. Torte in faccia alla statua di cera del neo-Re d’Inghilterra Carlo III. Vernice contro un negozio Ferrari nel centro di Londra. E, ieri, vernice su Palazzo Madama, la sede del Senato. Queste azioni nascono per rompere gli schemi comunicativi a cui siamo ormai assuefatti: la polarizzazione delle opinioni che le accompagna e le segue è una conseguenza inevitabile. Per gli attivisti, come ha spiegato chiaramente una delle due partecipanti alla protesta alla National Gallery in un video, accettare l’impopolarità personale è semplicemente il prezzo da pagare per attirare l’attenzione dei media, funzionale ad “avviare la conversazione” e ottenere il sostegno pubblico.

Criticare queste azioni e i loro autori e autrici è legittimo. Ma chi dice quali sono le proteste “giuste”? Qual è, secondo il galateo della protesta cortese il modo più corretto per richiamare con efficacia l’attenzione sul fatto che il pianeta sta bruciando e che, se non invertiamo la rotta, in un futuro non così lontano potrebbe non restare nessuno ad apprezzare i capolavori tumulati nei musei? E, soprattutto, è proprio vero che le azioni estreme e provocatorie hanno come unico risultato quello di allontanare il pubblico dai motivi della protesta?

L’ultima domanda è sicuramente la più interessante e quella che merita l’attenzione più urgente, visto che solo poche settimane fa Il Giornale titolava “Altro che clima, fanno solo infuriare: l’errore degli estremisti green”, spiegando che «gli attivisti di Just Stop Oil continuano con le proteste: ma imbrattare quadri di fama mondiale non serve a sensibilizzare sul riscaldamento globale».

Colin Davis, professore di psicologia cognitiva dell’Università di Bristol, ha provato a rispondere, basandosi sulla letteratura e le ricerche esistenti e su diversi esperimenti condotti in prima persona.

Ricordando che anche di fronte all’avanzata del movimento suffragista – condotta non solo attraverso azioni violente e l’uso di esplosivi, ma anche proteste dimostrative, come quella della suffragetta Mary Richardson che squarciò la tela del dipinto The Rokeby Venus, custodito alla National Gallery – il dibattito ruotava attorno alla domanda: queste proteste hanno fatto bene o male al movimento?

«Molti storici sostengono che il contributo delle suffragette all’ottenimento del voto delle donne fosse trascurabile o addirittura controproducente. Tali discussioni spesso sembrano basarsi sui sentimenti istintivi delle persone sull’impatto della protesta. Ma come professore di psicologia cognitiva, so che non dobbiamo fare affidamento sull’intuizione: queste sono ipotesi che possono essere verificate», ha spiegato Davis su The Conversation.

Attraverso una serie di esperimenti, uno studio dell’Università di Toronto pubblicato nel gennaio 2020 sul Journal of Personality and Social Psychology ha postulato il cosiddetto “activist dilemma”, secondo cui «le stesse azioni di protesta che possono offrire determinati benefici rischiano anche di minare il sostegno popolare ai movimenti sociali». Meglio, quindi, optare per azioni moderate – e ampiamente ignorate – o azioni più estreme che sono efficaci nell’attirare l’attenzione, ma possono essere controproducenti per i loro obiettivi e diminuire il supporto ai movimenti sociali?

Per rispondere alla domanda, Davis e il suo team hanno cercato di influenzare le opinioni dei partecipanti sui manifestanti, sfruttando il cosiddetto effetto “framing” per cui le differenze (anche minime) nel modo in cui le proteste vengono raccontate hanno un impatto profondo e spesso sono funzionali a delegittimare la protesta. È il caso, a esempio, dell’articolo pubblicato dal Daily Mail all’indomani della protesta che ha coinvolto i Girasoli di Van Gogh, in cui l’azione veniva definita una «prodezza» inserita in una «campagna di caos» condotta da «eco-fanatici ribelli», mentre le motivazioni e le richieste dei manifestanti, semplicemente, non erano nemmeno citate.

«I nostri esperimenti hanno sfruttato questo effetto framing per testare la relazione tra gli atteggiamenti nei confronti dei manifestanti e della loro causa. Se il sostegno del pubblico a una causa dipende da come si sente nei confronti dei manifestanti, allora un framing negativo – che porta ad atteggiamenti meno positivi nei confronti dei manifestanti – dovrebbe comportare livelli più bassi di sostegno alle richieste. Ma non è quello che abbiamo trovato».

La manipolazione ha sì ridotto il sostegno ai manifestanti, ma non alla loro causa. Un risultato che non riguarda solo la lotta al cambiamento climatico, ma che è stato confermato replicando gli esperimenti e adattandoli a diversi tipi di protesta non violenta, comprese le proteste sulla giustizia razziale e i diritti all’aborto, coinvolgendo partecipanti britannici, americani e polacchi.

Per dirla in poche parole, «quando i membri del pubblico dicono: “Sono d’accordo con la tua causa, semplicemente non mi piacciono i tuoi metodi”, dovremmo prenderli in parola».

Non è vero, quindi, che azioni estreme allontanano il pubblico dalla causa: le proteste ad alta pubblicità possono anzi essere un modo molto efficace per aumentare il reclutamento di attivisti. La radicalità delle azioni, inoltre, sembra anche aumentare per contrasto il sostegno alle fazioni più moderate dei movimenti sociali, con cui il pubblico è portato a identificarsi maggiormente.

Non solo: questo tipo di proteste gioca anche un ruolo fondamentale nell’indirizzare l’agenda setting. Se è vero che spesso la sproporzione tra le notizie relative alle azioni dei manifestanti e l’obiettivo della protesta è evidente, nondimeno i temi arrivano all’attenzione del grande pubblico attraverso i media. Detto più semplicemente, queste proteste forse non sono capaci di dire alle persone cosa pensare, ma influenzano ciò a cui pensano.

Le analisi di Davis non sono un segnale isolato. Un sondaggio commissionato da Social Change Lab e condotto prima, durante e dopo le proteste di Just Stop Oil e Extinction Rebellion (29 marzo, 9 aprile e 19 aprile) ha mostrato che la consapevolezza pubblica sul gruppo è passata da quasi zero prima dell’inizio delle azioni a oltre il 63% in sole due settimane e mezzo e che il 58% degli adulti del Regno Unito al momento dell’ultimo sondaggio sosteneva le richieste di Just Stop Oil, rispetto al 23% che si dichiarava contrario e al 19% neutro.

I dati mostrano che, nonostante le proteste fossero “dirompenti,” non c’è stata alcuna perdita di sostegno alle politiche climatiche. I risultati, anzi, suggeriscono che le azioni abbiano avuto «un effetto statisticamente significativo (p = 0,09) sulla probabilità auto-percepita dagli intervistati di partecipare all’attivismo ambientale».

Invece di scoraggiare il pubblico a intraprendere azioni per il clima, il numero di persone che ha affermato che probabilmente parlerà con amici e familiari del cambiamento climatico, contatterà il proprio parlamentare per spingerlo ad agire sulle questioni climatiche o parteciperà a una protesta sul cambiamento climatico che nei successivi 12 mesi è aumentato dall’8,7% all’11,3%, pari a circa 1,7 milioni di adulti.

«Abbiamo sentito molte persone ipotizzare che le proteste dirompenti utilizzate da Just Stop Oil fossero dannose per il movimento per il clima», ha spiegato James Ozden, Direttore del Social Change Lab. «I risultati del nostro sondaggio non supportano questa teoria, non riscontrando alcuna perdita di sostegno per le politiche climatiche chiave e, invece, registrando un aumento della probabilità che il pubblico del Regno Unito adotti varie forme di azione per il clima».

«Non è vero che queste proteste si sono ritorte contro provocando una grande reazione negativa nella popolazione», ha concluso il dottor Ben Kenward, docente di psicologia presso la Oxford Brookes University, che ha collaborato alla ricerca.

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