Diritti

Messico: aborto legale? Non proprio

A oltre un anno dalla storica sentenza che lo depenalizzava, in molte aree del Paese le donne sono ancora incarcerate per aver interrotto una gravidanza, anche spontaneamente
Credit: EPA/Luis Torres
Alessia Ferri
Alessia Ferri giornalista
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30 dicembre 2022 Aggiornato alle 13:00

A settembre 2021, quando la Suprema Corte messicana aveva dichiarato incostituzionali gli articoli del codice penale che punivano l’interruzione volontaria di gravidanza con la reclusione fino a tre anni, si era parlato di svolta storica.

Il Messico legalizza l’aborto, scrivevano i giornali di mezzo mondo in approfondimenti ricchi di immagini di donne festanti in piazza con il loro pañuelo verde, il fazzoletto simbolo del movimento aborto legal che come uno tsunami dall’Argentina si è espanso in tutto il sud America.

Tuttavia, a distanza di oltre un anno da quel momento, le cose non sono andate esattamente come sperato.

L’aborto infatti sarebbe tutt’altro che accessibile per la maggior parte delle cittadine e molte donne sarebbero addirittura in carcere per averlo praticato. Circa 200 secondo le associazioni femministe, tutte vittime di leggi obsolete mai aggiornate e soprattutto di una cultura diffusa che in barba alle decisioni della Corte non si dimostra desiderosa di compiere reali passi avanti.

Perché dalla sentenza si passi alla pratica è necessario infatti che i singoli Stati che compongono il Messico ratifichino il cambiamento ma al momento a permettere l’aborto sarebbero solo 10 stati su 32 e in 26 non sarebbe stata apportata nessuna modifica ai codici penali.

Fino a settembre 2021 gli unici luoghi nei quali si poteva compiere un’interruzione volontaria di gravidanza erano Città del Messico, Oaxaca, Veracruz e Hidalgo ma anche lì le testimonianze di tentativi di ostruzionismo e ostacoli vari sono tuttora migliaia.

Ciò che rende la vicenda ancora più preoccupante, è il fatto che il Messico punirebbe con il carcere non solo gli aborti volontari, ma anche quelli spontanei, equiparati a omicidi, nell’indifferenza quasi generale.

A cercare di squarciare questo velo ci sta provando Aurelia García Cruceño, una 23enne scarcerata da pochi giorni, a seguito di una reclusione di tre anni dovuta proprio a un aborto spontaneo.

Cresciuta nella comunità indigena Nahua, una delle regioni montuose più povere dello stato di Guerrero, nel 2019 venne violentata da un funzionario del suo villaggio e rimase incinta. Dopo quell’episodio si trasferì da alcuni parenti nella città Iguala e lì un giorno venne ricoverata in ospedale per una perdita copiosa di sangue.

Aborto spontaneo. La sua vicenda di violenza, povertà e tristezza avrebbe potuto esaurirsi così, invece Aurelia si ritrovò il giorno stesso incatenata al letto, accusata di una forma di omicidio e costretta a firmare documenti contro la sua volontà in uno spagnolo per lei incomprensibile, abituata com’era a parlare la lingua del suo villaggio natale, il nahuatl.

Dopo anni terribili dietro le sbarre, pochi giorni fa è stata scarcerata e consapevole del medesimo destino che accomuna molte ragazze nel Paese, ha iniziato il suo operato di attivista a fianco delle tante associazioni che si battono per i diritti delle donne.

Marina Reyna Aguilar, presidente dell’Associazione Guerrero contro la violenza contro le donne, ha affermato che il caso di Aurelia García Cruceño è esemplificativo di ciò che accade a molte, soprattutto se indigene, giovani e povere. «Ci sono molti casi come il suo. A Guerrero nel 2022 ci sono state 108 donne assassinate e 12 casi di femminicidio».

Eppure, oltre alla decisione della Corte altri segnali negli scorsi mesi sembravano testimoniare che il cambio di rotta fosse finalmente avvenuto. Basti pensare che, come riportato dalla CNN, a seguito del ribaltamento della sentenza Roe vs. Wade che non garantisce più il diritto all’aborto sul territorio Usa, molte statunitensi si sono rivolte proprio a cliniche abortive messicane per effettuare una IVG. Soprattutto quelle di Tijuana, luogo di confine che i messicani hanno spesso cercato di oltrepassare nella speranza di una vita migliore, e che molte nord americane da alcuni mesi percorrono al contrario, esattamente e paradossalmente con la stessa motivazione.

Le notizie più recenti sembrano parlare di un altro Messico ma in realtà è lo stesso, cambia semplicemente lo spaccato che si decide di osservare.

Mentre la popolazione abbiente ha infatti accesso a cliniche in cui ogni cosa si svolge secondo i canoni, le autorità governative stanno facendo poco o nulla per aumentare la consapevolezza sull’accesso all’aborto e aiutare le donne a basso reddito a permettersi la procedura, nonostante solo pochi giorni fa il ministero della Salute abbia pubblicato linee guida chiare per l’aborto negli ospedali pubblici.

La strada per la svolta storica, insomma, sembra ancora piuttosto in salita. Meno male che esistono attiviste determinate come Aurelia García Cruceño, che ha deciso di riprendere gli studi liceali per diventare un giorno insegnante, e che al momento spera che il suo caso possa aiutare altre persone. «Parlo perché non voglio che nessuna passi quello che ho passato io. Nessuno dovrebbe rimanere in silenzio».

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