Economia

E se da Internet sparisse la pubblicità?

La proposta presentata al Congresso Usa sarebbe una vera rivoluzione. Che trasformerebbe il web in un mondo più libero.
Credit: Jorge Fernandez Salas
Tempo di lettura 4 min lettura
20 gennaio 2022 Aggiornato alle 08:00

Via la pubblicità profilata – o, come si dice in gergo targettizzata – da Internet. È la sintesi del Banning Surveillance Advertising Act, la proposta di legge appena presentata dai democratici al Congresso degli Stati Uniti. Un’idea che, se la proposta diventasse legge, azzererebbe il modello di business sul quale l’intera Internet, come la conosciamo, si regge e scatenerebbe, probabilmente, il terremoto di magnitudo più forte sin qui registrato dalle origini di Internet. Il giorno dopo l’entrata in vigore delle nuove regole, i bilanci di giganti del calibro di Google e Facebook, probabilmente, vacillerebbero. E, probabilmente, se in borsa i titoli delle due super potenze del web non hanno ancora avvertito contraccolpi rilevanti a seguito dell’annuncio, è perché i mercati, almeno sin qui, non hanno preso sul serio l’iniziativa legislativa democratica.

Nella sostanza la proposta di legge prevede che, con poche eccezioni, la pubblicità online dovrebbe diventare, più o meno, come la pubblicità diffusa una volta attraverso televisione, radio e giornali: messaggi identici da uno a molti senza nessuna personalizzazione sulla base del profilo dei destinatari, dei loro interessi, delle loro preferenze, delle loro caratteristiche socio-economiche e demografiche. Il valore della pubblicità digitale crollerebbe letteralmente perché la sua forza ed efficacia sarebbero straordinariamente ridimensionate. E, naturalmente, un istante dopo, le big tech che hanno costruito la loro posizione sui mercati globali essenzialmente accumulando dati personali degli utenti e costruendo profili di consumo di questi ultimi da rivendere agli inserzionisti pubblicitari si trasformerebbero in giganti dalle gambe di argilla.

I dati accumulati nei loro forzieri si ritroverebbero svuotati della più parte del loro valore. Ma, intendiamoci, niente di tutto ciò significa che l’iniziativa legislativa in questione sia concettualmente sbagliata, non condivisibile o priva di basi etiche e giuridiche solide. Anzi è, semmai, vero il contrario. La proposta di legge va dritta al cuore di uno dei più grandi problemi dell’intero ecosistema digitale: l’accumulo di una quantità industriale di informazioni personali da parte di una manciata di soggetti che ormai conoscono ciascuno di noi più di quanto ciascuno di noi conosce sé stesso. Un accumulo grazie al quale questi soggetti sono divenuti oligopolisti di mercati nati come liberi, sconfinati, aperti e competitivi e oggi divenuti a concorrenza ridotta quando non del tutto assente.

Se queste quantità industriali di dati si ritrovassero private di valore perché inutilizzabili per finalità commerciali, cambierebbe tutto o quasi. Verrebbe probabilmente meno qualsiasi utilità nel loro accumulo, nella loro analisi, nel loro trattamento. Le posizioni dominanti o, almeno, ingombranti, conquistate dalle big tech sui mercati nei quali operano oggi, sostanzialmente non contendibili proprio in ragione del valore non replicabile da parte di qualsiasi competitor dei dati da queste ultime accumulati, tornerebbero a essere contendibili e i mercati di riferimento tornerebbero a essere liberi.

Ma non sarebbe solo una questione di libertà di concorrenza. Meno dati accumulati nei forzieri di pochi, infatti, significherebbe anche meno chance per chiunque di riuscire a influenzare l’opinione pubblica globale, le coscienze della gente, il loro orientamento politico, culturale e religioso.

Cambierebbe davvero tutto o quasi perché l’attuale assetto, in molte – se non in tutte – le dimensioni dell’esistenza umana, in quelle delle nostre democrazie e dei nostri mercati è oggi influenzato in maniera significativa proprio da queste enormi concentrazioni di dati e, quindi, di potere, nelle mani di pochi e nell’uso che di questi dati, quei pochi fanno, faranno o, anche, semplicemente, potrebbero fare.

Il Banning Surveillance Advertising Act, se mai vedesse la luce, sarebbe una delle più rivoluzionarie regolamentazioni a tutela della privacy dei cittadini del mondo sin qui approvata e avrebbe, probabilmente, un impatto più rilevante o, almeno, più concreto persino di quello, pure di portata globale, avuto dall’ormai celeberrimo GDPR, il Regolamento Generale europeo sulla protezione dei dati personali.

Gli Stati Uniti d’America, il Paese che ha dato i natali all’industria dei dati, la ridimensionerebbe più di quanto abbia, sin qui, fatto, l’Unione Europea che, di quell’industria, in una manciata di anni, è divenuta colonia digitale e gli Stati Uniti d’America ai quali, proprio in questi mesi, l’Europa rimprovera di avere meno a cuore di noi, il diritto alla privacy, diverrebbero la culla di un modo completamente nuovo e diverso di immaginare l’ecosistema digitale, un modo che consentirebbe a chiunque di noi di frequentarlo senza essere costantemente tracciato, osservato, pedinato per scopi commerciali e non solo commerciali.

Uno scenario difficile anche solo da immaginare ma che, per ora, conferma quanto la società nella quale viviamo sia liquida, quanto i suoi equilibri, in tutte le dimensioni che le danno forma, siano precari, quanto una manciata di caratteri scritti in una norma di legge possano, almeno in astratto, consentire di ridefinire, dalla sera alla mattina, i confini di imperi che oggi appaiono inossidabili, inarrivabili e invincibili.