Futuro

Chi ha rubato la nostra attenzione?

Internet e la velocità in cui viviamo stanno avendo un impatto negativo sulla nostra capacità di concentrazione. E anche il multitasking è un’illusione
Credit: Hatice Yardim
Tempo di lettura 4 min lettura
19 gennaio 2022 Aggiornato alle 21:00

Nel mondo dei media la curva dell’attenzione indica il livello di interesse delle persone verso un certo tema. Può calare o aumentare a seconda di alcuni fattori: dall’importanza e la risonanza di un evento politico a uno sportivo, dalla notorietà del personaggio in questione o dalla gravità, anche, di un fatto.

In neuropsicologia, invece, il livello di attenzione si associa a un processo neurocognitivo. La teoria della “curva dell’attenzione” rappresenta l’incapacità della mente umana di mantenere lo stesso livello alto di concentrazione per un lungo periodo di tempo: l’attenzione è un processo cognitivo che permette di organizzare le informazioni provenienti dall’esterno e di regolare i processi mentali in base a esse. Ma anche di selezionare alcuni stimoli ambientali, ignorandone altri.

Johann Hari, giornalista e scrittore anglo-svizzero, da lungo tempo si interessa del tema della concentrazione e dei problemi che ne derivano, dovuti soprattutto alla velocità con cui conduciamo le nostre vite. Negli ultimi 3 anni ha viaggiato tutto il mondo per intervistare i maggiori esperti del tema. Affida le risposte delle ricerche alle pagine del suo ultimo libro “Stolen Focus: Why you can’t Pay attention (La concentrazione rubata: perché non puoi essere attento - un estratto si può trovare sul Guardian) - in cui afferma che non ci troviamo semplicemente di fronte a una normale ansia per l’attenzione, di quelle che ogni generazione attraversa con l’invecchiamento, ma di vivere una grave crisi dell’attenzione, peggiorata negli ultimi decenni.

Hari racconta di essere andato a Portland, in Oregon, per intervistare il professor Joel Nigg, esperto di disturbi dell’attenzione nei bambini, il quale suggerisce di chiederci se stiamo sviluppando “una cultura patogena dell’attenzione”, ovvero un ambiente in cui la concentrazione duratura e approfondita sia sempre più difficile da gestire. La professoressa francese Barbara Demeneix, da anni focalizzata su alcuni fattori chiave che possono disturbare l’attenzione, ha invece affermato: “Oggi non è possibile avere un cervello normale”. E gli effetti sono già intorno a noi: Hari cita uno studio secondo cui gli studenti universitari si concentrerebbero su un compito in media per 65 secondi, mentre un impiegato solo per 3 minuti.

Dopo aver condotto un esperimento su se stesso - disconnettersi da news, notifiche e social media per 3 mesi - Hari si focalizza su altri input per capire come riappropriarci della nostra attenzione attraverso le parole del professor Earl Miller, neuroscienziato del Massachusetts Institute of Technology. “Il tuo cervello può produrre solo uno o due pensieri contemporaneamente” suggerisce Miller. “Abbiamo capacità cognitive molto limitate”. Eppure, siamo caduti in un’enorme illusione, spiega Johann Hari: un adolescente medio crede di poter essere attento a sei mezzi di comunicazione diversi nello stesso momento, con scarsi risultati.

I neuroscienziati hanno scoperto che quando le persone credono di fare più cose insieme, in realtà si destreggiano: quando passiamo dalla lettura di un articolo a un post su un social media, a un documento di lavoro fino a un videogame contemporaneamente, riconfiguriamo il nostro cervello senza mantenere il focus su nessuna delle cose che stiamo leggendo, ascoltando o scrivendo. I ricercatori lo chiamano “switch-cost effect”, letteralmente l’effetto del costo del cambiare. Per intenderci, se controlliamo il testo di un messaggio mentre stiamo lavorando, non stiamo solo perdendo il tempo necessario per riprendere l’attenzione su una delle due azioni, ma lo allunghiamo per focalizzarci di nuovo sulla cosa che abbiamo interrotto per iniziarne un’altra.

Hari ammette di aver imparato che i fattori che danneggiano la nostra attenzione non sono tutti evidenti. All’inizio, lo scrittore dava le colpe solo alla tecnologia, per poi accorgersi che le cause possono variare: dal cibo che mangiamo all’aria che respiriamo, dalle ore in cui lavoriamo a quelle in cui non dormiamo più. Siamo costantemente chiamati a fare più cose, senza considerare che potremmo semplicemente sforzarci a farne solo una alla volta. La meditazione sembra essere un buon aiuto, ma per attuare davvero un cambiamento bisogna anche convivere con le abitudini della società attuale: Hari suggerisce di realizzare delle pratiche collettive per riappropriarci della nostra attenzione, dal definire degli orari di lavoro ben precisi, a convincere le grandi compagnie che lucrano su una costante presenza online degli utenti, a rivedere i loro business model.

Come per la lotta femminista, Hari è convinto che nessun cambiamento possa avvenire senza combattere. Ne va del nostro presente e futuro.