Diritti

Cosa ci insegna il caso di Cristina D’Avena

La cantante simbolo dell’infanzia di almeno due generazioni ha deluso i suoi fan. Ma la sua débacle ci offre la possibilità di una riflessione più ampia
Credit: Pamela Rovaris/Pacific Press via ZUMA Wire
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21 dicembre 2022 Aggiornato alle 06:30

La storia di Cristina D’Avena che si esibisce al decennale di Fratelli d’Italia potrebbe sembrare una delle mille polemiche social che lasciano il tempo che trovano, e per certi versi lo è pure. Ma per altri versi è una storia che contiene altre storie, una millefoglie di significati e contenuti e immaginari che vale la pena di esplorare, perché quell’esplorazione ci porta a interrogarci su questioni che sono centrali alla nostra definizione di libertà, etica e scelta. Niente male, per una che cantava Noi Puffi siam così/noi siamo Puffi blu.

Per ricapitolare, Cristina D’Avena – amatissima interprete di sigle di cartoni animati e quindi a pieno titolo personaggio centrale nell’immaginario di almeno due generazioni – è stata criticata con molta durezza perché dopo decenni di esibizioni ai Pride (oltre che alle sagre, nelle piazze, insomma: dove la chiamavano, come fanno tutti gli artisti) ha scelto di andare a cantare per il compleanno di un partito che sposa apertamente l’omofobia (ma sarebbe più corretto dire l’omolesbobitransfobia).

Qua ci sarebbe subito da dire qualcosa sulla scelta di Fratelli d’Italia di festeggiare dieci anni di politica con le sigle dei cartoni. Per giunta nemmeno con le migliori, perché scusate ma Lady Oscar de I Cavalieri del Re (con quell’attacco di synth in stile settecentesco) si mangia Una spada per Lady Oscar a colazione. Non mi ricordo di altri partiti che abbiano fatto altrettanto, in compenso mi ricordo l’imbarazzo di Donald Trump che non riusciva a trovare gente che cantasse alla sua cerimonia di insediamento, e mi immagino che sia andata così anche questa volta. Oppure no, hanno proprio voluto festeggiare con le sigle dei cartoni perché sono dei bambinoni, chi lo sa. Di sicuro, Mila e Shiro due cuori nella pallavolo cantata dal pubblico presente aveva lo stesso piglio di certi cori da Curva Nord.

Sta di fatto che Cristina ha accettato, e la sua fanbase (costituita in larga parte dalla comunità LGBTQ) se l’è presa. Cosa che da un lato è pure un po’ esagerata, e dall’altro perfettamente comprensibile: non era sempre Cri Cri nostra quella che si è fatta fotografare con la scritta “DDL ZAN” su una mano? Cosa ci faceva alla festa di quelli che hanno esultato per l’abbattimento del suddetto DDL come gli argentini al secondo rigore sbagliato dalla Francia alla finale dei Mondiali? Cristina D’Avena è la voce dell’infanzia di milioni di adulti, la voce che accompagnava i nostri pomeriggi davanti alla TV a rubare tempo ai compiti a casa per guardare Bim Bum Bam. Le sigle erano spesso bruttine, fatte con lo stampino, con testi cuore-amore, ma è difficile dissociarle da un periodo in cui ci sembrava di essere felici.

Ci doveva andare? Non ci doveva andare? La scelta è, come tutte le scelte, personale; e nel capitalismo, qualsiasi lavoratore può essere certo di prestare la sua opera (in maniera diretta o indiretta) a persone di cui non condivide l’orientamento politico. È quasi impossibile conciliare la scelta etica con la necessità di mettere insieme il pranzo con la cena, e anche volendo non tutti possono permettersi di farla, quella scelta. Decidere che tu con questo o quello non ci lavori perché non ti piace come la pensano è una forma di privilegio: chi può lo esercita, chi non può non lo esercita. Criticare un lavoratore per le sue scelte professionali è possibile solo a patto di tenere presente questo punto.

Nel caso degli artisti, tuttavia, la questione è molto più complessa, perché l’artista è portatore di significati e contenuti. Cristina D’Avena, la cui versione di Occhi di Gatto (un twist sbarazzino sorretto da un riff di sassofono che è memorabile quanto il ritornello) è ormai un classico del pop anni ’80 e dei DJ set un po’ ironici un po’ no di tutti i Pride Village della penisola, ha deciso di portare il suo personaggio, i suoi significati e i suoi contenuti in un contesto di chiara matrice politica. Letteralmente: quando è salita sul palco con la sua gonnellona arcobaleno, dietro di lei campeggiavano gli stemmi con la fiamma tricolore del Movimento Sociale Italiano, il partito formato dagli ex fascisti che il primo governo repubblicano pensò bene di non processare alla fine della guerra. E sappiamo bene che rapporto avevano i nazifascisti con gli omosessuali.

Alcuni contesti sono abbastanza aperti da consentire la pluralità di posizioni; altri, come questo, sono il classico caso di contenitore che si mangia il contenuto. Cristina D’Avena non era lì a fare un discorso, era lì a far divertire il pubblico: anche ammesso e non concesso che avesse parlato di diritti, avrebbe rischiato di essere sommersa di fischi a meno che non si mantenesse sul generico. A parlare di amore universale sono buoni tutti, come a pensare di essere portatori di quell’amore, anche mentre ci si distingue per negarlo a più persone possibile.

Ha un bel tentare di difendersi, D’Avena, dicendo che lei non si è mai schierata. Salendo su quel palco, si è schierata eccome, e in maniera abbastanza plateale. È un suo diritto, ovviamente, ma come tutte le scelte ha una lettura politica e delle ricadute sulla reputazione. Se da un lato sarebbe ridicolo investirla di un qualsiasi ruolo all’interno della comunità LGBTQ che non sia quello dell’intrattenimento puro (le battaglie, come ha detto più di qualcuno, sono altre e si svolgono altrove), dall’altro è difficile pensare che il prossimo mese del Pride la veda cinguettare È Memole il nome mio/folletto sono io al Parco del Ninfeo o in qualsiasi altra manifestazione legata alla celebrazione dell’anniversario dei moti di Stonewall. Il Pride, giova ricordarselo, è nato con una rivolta: la sua natura politica è indiscutibile e immutata.

La comunità queer è sotto attacco costante, e per quanto a tratti possa mancare di coesione interna (come dimostrato dalla deriva transfobica di Arcilesbica Nazionale) è molto sensibile alle scelte di chi si dichiara suo alleato. E non è la sola: chiunque si identifichi nei valori dell’antifascismo e abbia contemporaneamente amato il lento struggimento di Prendi il mondo e vai (e della sua sigla, una ballad malinconica con un notevole crescendo in apertura) fatica a capire come si possa essere così indifferenti alla politica da scegliere di andare a rallegrare gli elettori di Fratelli d’Italia, un partito la cui dirigenza ha con la parola “antifascista” più o meno il rapporto che Fonzie aveva con il concetto di “essersi sbagliato”.

Riassumendo: la libertà di scelta è garantita a chiunque, ma ogni scelta – soprattutto se di alto profilo – può essere giudicata e criticata. Cristina D’Avena ha fatto la sua: forse per convinzione, forse in maniera ingenua e senza aver calcolato bene le conseguenze, o forse perché – come tanti italiani – vive in una bolla in cui ogni partito si equivale e la coscienza politica non esiste. Noi, per ora, la ringraziamo per averci dato l’opportunità di riflettere: anche e soprattutto su quanto sia controproducente avere degli idoli.

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