Diritti

2022, l’anno dei diritti congelati

Lavoro, cittadinanza, voto, autodeterminazione, salute: il punto su ciò che è (ancora) fermo in Italia
Credit: Cottonbro
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28 dicembre 2022 Aggiornato alle 13:00

Il 2022 sta per finire, e la cosa migliore che possiamo dire di quest’anno è proprio che sta finendo. Spiace essere così cinica, ma è la verità: non avevamo ancora finito di smaltire l’onda lunga della pandemia, ed ecco che Vladimir Putin invade l’Ucraina. Siamo passati da un’emergenza all’altra senza quella precedente fosse finita, e Capodanno 2023 ci troverà ancora qui, con le bollette alle stelle, i contagi e i morti a cui ormai nessuno bada più, e una guerra nel cuore dell’Europa. Ha senso parlare di diritti?

Forse sì, se partiamo dal presupposto che quest’anno non sembra che l’Italia ne abbia guadagnato mezzo, su alcun fronte. Lo dice il Rapporto sullo stato dei diritti in Italia pubblicato dall’associazione A buon diritto, che lo aggiorna ogni anno, e che il 3 dicembre ha presentato gli ultimi risultati aggiornati. Non solo non abbiamo guadagnato niente in termini di lavoro, sicurezza sociale, diritto all’autodeterminazione e alla salute e in generale sul fronte dei diritti civili e sociali (una distinzione che non ha alcun senso, come vedremo, ma molto cara a una parte della sinistra che pensa ancora di poter stilare una gerarchia dei bisogni), ma il rischio è di assistere a una contrazione forzata di garanzie che ci sembravano ormai consolidate.

Partiamo dal diritto alla salute, che è stato in cima ai nostri pensieri per abbastanza tempo da richiedere una riflessione approfondita. Il 2022 è l’anno in cui abbiamo deciso che tutto sommato con il virus Sars-CoV-2 (e le sue infinite varianti per cui ormai abbiamo finito l’alfabeto greco e ci siamo buttati sulla mitologia) si poteva convivere. Vaccinati ci siamo vaccinati, chi vive vive e chi muore muore, e chi sviluppa la sindrome da Long Covid, eh, spiace. Non granché, come affermazione di un diritto, specialmente se pensiamo a che vita fanno ora gli immunodepressi, ma il problema non è tanto questa malattia specifica quanto lo smantellamento della sanità territoriale, che in molte regioni è stata la causa primaria della strage. Si è fatto qualcosa per ovviare al problema? Per ora no: chi vive in Lombardia, per esempio, continua a segnalare difficoltà di accesso ai servizi più elementari. Spesso ci vanno di mezzo i bambini.

Il problema a livello nazionale: mancano gli infermieri, e i medici – che pure ci sono – vengono contrattualizzati “a gettone”, pagandoli molto più di quanto li si pagherebbe assumendoli, ma costringendoli a fare turni massacranti che aumentano le possibilità di compiere errori. Questo è un problema di diritto alla salute ma anche un problema di tutela del lavoro. A volte si fa l’errore, come dicevo, di pensare che i diritti siano collocabili in una scala di priorità: e invece i diritti sono connessi e spesso sovrapponibili. Lo sapevate, per esempio, che gli italiani senza cittadinanza non hanno accesso ai concorsi pubblici? (Ne parlavamo qui con Ada Ugo Abara.) La riforma di quello che passa come un diritto marginale aprirebbe l’accesso ai concorsi per tutto il personale medico che si è laureato in Italia ma non può esercitare nelle strutture pubbliche: nel 2020 si stimava che il numero fosse intorno alle 77.000 persone.

Diritti interconnessi, dicevamo. Quello alla cittadinanza è fermo, bloccato, dal 1993: non si vede all’orizzonte alcuna proposta di riforma che riconosca alle persone nate e cresciute in Italia il diritto di vivere alla pari di chiunque altro, con gli stessi diritti, a partire da quello di voto. Che pure per gli italiani è difficilmente esigibile: a ogni tornata elettorale ci si lamenta dell’astensionismo, salvo poi dimenticarsi del tutto dei fuorisede, che sono sempre di più e sempre meno nelle condizioni di poter partecipare alla vita democratica del Paese. Si potrebbero usare gli strumenti digitali a nostra disposizione? Certo: lo Spid mica ce lo siamo fatto solo per pagare le multe su IO. Lo si sta utilizzando per provare a ovviare a un’ingiustizia? Assolutamente no. Sembra quasi che, fra taglio dei parlamentari e soppressione del voto, non si voglia che la gente sia rappresentata. Anche quello è un diritto: anche quello, viene eroso anno dopo anno.

Sui diritti delle donne c’è quasi paura di esprimersi, perché mentre in Spagna si legiferava sul consenso esplicito a un rapporto sessuale e in Francia si parlava di rendere le molestie per strada un reato, in Italia le donne continuavano a morire nell’indifferenza generale. A fronte di questa indisponibilità delle istituzioni a prendere sul serio le istanze dei femminismi, che da tempo chiedono e propongono soluzioni per contrastare la violenza domestica, relazionale e sessuale, è un po’ difficile parlare di progressi. Ah, ma certo, abbiamo la prima presidente. Il primo presidente, dice lei, che è donna ma non troppo.

La prima presidente (perché la grammatica e il genere delle persone non si cambiano di sicuro a colpi di circolari della Presidenza del Consiglio) ha anche affermato che non intende toccare la legge al centro di una delle questioni più delicate, vale a dire l’autodeterminazione delle donne e delle persone gestanti. Giorgia Meloni, per mano della sua Ministra della Famiglia e Natalità Eugenia Roccella, intende applicare la 194: chi ha orecchie per intendere non può che ravvisare in questa indicazione non solo una sostanziale indifferenza alle limitazioni di accesso all’aborto e alla contraccezione, ma anche una possibile interpretazione restrittiva di una legge che non garantisce affatto l’interruzione di gravidanza: la consente ad alcune condizioni. Travisando Carla Lonzi, Roccella ha affermato di avere “imparato dal femminismo che l’aborto non è un diritto”, cosa che Lonzi non ha mai detto: e l’interpretazione creativa delle madri dei femminismi non è nemmeno la cosa meno grave, fra quelle che ci si prospettano.

Salario minimo? No, grazie, o meglio: il Parlamento Europeo ha approvato la legislazione in materia, ma il 30 novembre i partiti di governo hanno votato contro le mozioni che avrebbero impegnato il governo a legiferare nella direzione dell’introduzione di una paga minima oraria. Quindi niente neanche su quel fronte. Soldi no, quindi, ma almeno uno straccio di diritto civile? Scordatevelo, bellezze: il 2022 ha visto il fallimento del DDL Zan contro i discorsi d’odio, l’omolesbobitransfobia, la misoginia e l’abilismo, ma pure la bocciatura dei referendum sulla legalizzazione della cannabis e sul fine vita da parte della Corte Costituzionale, che pure a febbraio si era espressa a favore di una legislazione sul tema. Che però non c’è. Decidere come morire, a quanto pare, è un diritto trascurabile.

Qualche spiraglio si è intravisto solo sul fronte di singole sentenze, come quella emanata a settembre dal Tribunale di Bari a favore di una coppia di donne che aveva chiesto di vedersi riconosciuta la maternità della figlia. Ed è di pochi giorni fa la notizia che la Commissione europea ha proposto l’armonizzazione delle norme in materia di genitorialità: non può essere che i bambini siano figli dei loro genitori in Spagna ma non in Italia o in Ungheria. Quest’anno ci ha lasciati Walter Di Benedetto, che nel 2021 era stato assolto dopo aver subito un processo per la coltivazione di cannabis in casa a scopo terapeutico. E anche su quel versante i legislatori languono, anzi: ora sono occupati a fare la guerra alle feste.

Auguri a noi. Visto da qui, il 2023 sembra tutto in salita.

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