Diritti

La cultura è un diritto di base

La proposta di abolizione (o rimodulazione?) dei bonus cultura ai neomaggiorenni è un errore su più fronti. Primo fra tutti, quello dell’alfabetizzazione collettiva
Credit: Matthew Feeney/ Unsplash  
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14 dicembre 2022 Aggiornato alle 06:30

Che il governo abbia intenzione di abolire il bonus cultura noto come 18App è ormai notizia vecchia, come è notizia relativamente vecchia che il governo si sia mezzo rimangiato il taglio – almeno a parole – dopo le polemiche, etichettate come “pretestuose”, sollevate dall’ambiente culturale italiano. È forse però tempo di parlarne al di fuori delle questioni di ragioneria, perché le iniziative che hanno a che vedere con la cultura vanno pesate in tutta un’altra ottica: e bisogna anche mettersi d’accordo su cosa si intende per “cultura”.

Comincio io, con un numero secco: 48%. È la percentuale di studenti al quinto anno delle scuole superiori, su media nazionale, che non raggiungono le competenze minime di lettura e scrittura in italiano. Sono quasi la metà, con una distribuzione molto disuguale sia sul territorio (al Sud e nelle isole la situazione è molto peggiore rispetto al Nord) sia per istituti scolastici. La media delle competenze linguistiche fra gli studenti dei licei è molto superiore a quella dei tecnici e dei professionali: in questi ultimi, la situazione precipita a livelli preoccupanti. Sono dati presenti nel rapporto Invalsi 2022, che rileva un crollo rispetto agli anni pre-pandemia, in cui la situazione era già preoccupante.

L’aneddotica vale quello che vale, ma dal mio punto di vista di docente in un’accademia per designer la situazione è disastrosa, non tanto sul versante della comprensione quanto su quello della scrittura. E non è colpa dei videogiochi, delle serie Tv o dell’essere fannulloni, come vorrebbe qualcuno, ma del fatto che a un certo punto, non so bene quando e come, a scuola si è smesso di insegnare la scrittura, nel senso di analisi, argomentazione ed esposizione di un ragionamento per iscritto. “Non mi viene la parola” è forse la frase che sento ripetere più spesso. Il vocabolario è povero, non c’è padronanza dei registri, il tentativo di suonare corretti genera frasi-mostro che fanno largo uso di malapropismi e pronomi che non vengono mai e poi mai utilizzati nel parlato, come “esso”. La punteggiatura viene sparpagliata a caso, oppure proprio non c’è.

No, non è certo un problema di epidemia di Dsa, anzi: chi ha una diagnosi di Dsa – ed è quindi consapevole del fatto che le sue difficoltà sono neurologiche e non cognitive – trova degli escamotage, oppure chiede aiuto. Il problema è più esteso. È un problema di competenze non acquisite, appunto: anno dopo anno, i test Invalsi fotografano una realtà sempre più preoccupante, e i ministeri preposti fanno… niente. Nessuna riforma dei programmi, nessun intervento di alcun tipo per arginare la situazione, tagli orizzontali senza criterio, zero investimenti sull’edilizia scolastica, le strutture, la formazione continua del corpo insegnante e l’ingresso in ruolo dei laureati più giovani.

Chi può e ha imbroccato la felice coincidenza fra classe sociale, luogo di provenienza e istituto, ce la fa. Chi no, rimane indietro. Non sarà mai in grado di informarsi se non a pezzi e a bocconi, e non è in grado di comunicare in maniera efficace tramite la scrittura. Sarà per sempre manipolabile a piacimento da chiunque possa convincerlo della bontà di qualsiasi tesi, idea o messaggio di propaganda. Immagino ci sia a chi sta bene.

Dovrebbe essere, ripeto, una questione prioritaria: la cultura è un diritto, è la base per la costruzione di una cittadinanza consapevole, e 18App non rappresenta certo la soluzione definitiva, soprattutto alla luce del fatto che il governo che ha varato il bonus è lo stesso che ha promosso una riforma scolastica che ha ulteriormente ampliato il divario fra chi è fortunato e chi no. Dati alla mano, però, l’80% di quei soldi sono stati spesi in libri. E qui entra una seconda considerazione, che ha meno a che vedere con il governo e molto di più con l’intellighenzia italiana e la sua idea di cultura come ambiente incestuoso e chiuso, piantato su un canone estetico risalente al massimo agli anni ’60, e in cui si è rinunciato del tutto a parlare di prodotti culturali nel senso più ampio possibile. Per dirla in soldoni: la narrativa commerciale può essere buona, media o pessima, ma dovrebbe essere compito di chi promuove la cultura valutarla, recensirla, parlarne con serietà, accettare che le persone leggono le cose più varie per i motivi più vari.

Incaponirsi sulla distinzione fra cultura “alta” e “bassa”, al di là dell’arbitrio insito nella definizione (dov’è l’asticella, chi l’ha messa, con quali parametri e perché?) non fa che allargare il divario fra chi lavora con il pensiero e chi di quel lavoro dovrebbe fruire. E ogni anno arriva un test a ricordarci che stiamo fallendo, che ormai i contenuti sono ridotti a video di 60’ e che tutto quello che non può essere compresso verrà ignorato, semplificato o traviato. I libri hanno una caratteristica peculiare e insostituibile: contengono ragionamenti complessi, architetture narrative, storie che si articolano di pagina in pagina. Non c’è video su YouTube o su TikTok che possa essere un sostituto efficace di un libro intero.

C’è anche chi – non del tutto a torto – fa notare che quel bonus non dovrebbe essere erogato a pioggia, ed è forse qui che mi trovo più che mai in disaccordo: non perché non riconosca le differenze di classe nell’accesso alla cultura, ma perché si tratta di una spesa destinata, circoscritta e personale, orientata ad acquisti specifici. Quei 500 euro erogati ai neo-maggiorenni sono un investimento sulla cittadinanza adulta, e rappresentano anche un sostegno indiretto a un settore in difficoltà. Un settore che non è solo economia, è nutrimento, vita, arricchimento, e perché no: anche divertimento. E che ora più che mai è fondamentale. Viviamo tempi complessi: abbiamo bisogno di tutte le intelligenze possibili.

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