Culture

Un quarantenne in crisi in un mondo alla deriva

Il nuovo romanzo Tasmania di Paolo Giordano è un’autobiografia incompiuta dove le inquietudini del protagonisti si intrecciano con i grandi eventi climatici contemporanei
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18 dicembre 2022 Aggiornato alle 13:00

È esplosivo Tasmania, l’ultimo romanzo di Paolo Giordano edito da Einaudi e osannato dalla critica mainstream, che pochi giorni fa gli ha persino attribuito il primo posto nella classifica di qualità de La Lettura, curata dall’influente Antonio D’Orrico del Corriere della Sera, di cui l’autore è una delle firme di punta.

Tuttavia, in questo caso esplosivo è da intendersi nella pura accezione letterale del termine e non quale accenno a presunte qualità letterarie.

Dopo averci raccontato di adolescenti e linee d’ombra, Giordano ci parla ora di adulti in crisi, in particolare di un maschio quarantenne e borghese.

Il protagonista, alter ego piuttosto evidente dello scrittore, è un giornalista di un grande quotidiano, esperto di fisica e alla ricerca di testimonianze per scrivere un libro sulla bomba lanciata su Hiroshima e Nagasaki.

Nel contempo, le ricerche del protagonista si intrecciano con altri botti: il Bataclan, gli attentati kamikaze in Europa fino ai fuochi d’artificio del capodanno del 2021 a Roma che fecero strage di storni di uccelli. E accanto a tutte queste esplosioni reali ci sono anche quelle metaforiche: si disintegrano coppie, amori, amicizie, relazioni sociali, sesso, senso di sé. Niente sarà mai più come prima.

In Tasmania – che prende in prestito il nome dell’isola australiana che presenta caratteristiche ideali per rifugiarsi dai mali del mondo - si avverte un senso costante di fragilità e precarietà di affetti e relazioni umane, messe a dura prova dai grandi cambiamenti della nostra epoca: pandemia, guerra e crisi climatica.

Che Giordano scriva bene, in modo cristallino e senza manierismi, lo sapevamo già sia dai suoi contributi giornalistici sia dai romanzi ma qui, più che altrove, si ha la sensazione che lo scrittore e fisico torinese si limiti a fare un po’ il compitino, senza mai elevarsi davvero sopra quelle nuvole studiate con tanta passione da Novelli, il climatologo con cui il protagonista si intrattiene in amene conversazioni lungo tutto il romanzo.

Il primo problema apparente del libro è l’autobiografismo e una certa autoreferenzialità, che però, grazie a una sorta di pudore da parte dell’autore, non scadono mai nell’autocompiacimento e nella spocchia intellettuale alla Carrere, garantendo al protagonista un carattere più frammentato e aperto verso il mondo che lo circonda.

Problema più serio in Tasmania è invece l’incomprensione dell’oggetto che abbiamo tra le mani: reportage? Fiction? Saggistica? Giornalismo?

Certo, è difficile fare fiction pura in anni come questi, in cui spesso la realtà supera l’immaginazione (io stesso durante il primo lockdown mi chiedevo che senso avessero le serie televisive, con quello che succedeva intorno a noi). Da qui il risultato di una forma ibrida di fiction, inframmezzata da consigli per gli acquisti con riferimenti al reale e ai fatti quotidiani.

Alla fine, nonostante gli ordigni esplosivi disseminati ad arte lungo tutto il percorso e lo sforzo di creare personaggi reali e credibili, questo romanzo, che per le tematiche trattate ricorda il folgorante Atlante Occidentale del compianto Daniele Del Giudice, implode un po’ in se stesso e manca di vera anima: i personaggi sono per lo più figurine che rimangono sullo sfondo e prive di tridimensionalità, e alla fine l’autore non riesce davvero a tirare tutti i fili del discorso.

Gli unici spunti interessanti sono i riferimenti alla crisi climatica che, probabilmente per una scelta deliberata dell’autore, non sembrano interessare i protagonisti del romanzo né si intersecano mai con le loro vicende, quasi a voler sensibilizzare il lettore a fare di meglio. Peccato che di tali dati non vengano mai analizzate le cause né fornite possibili soluzioni.

Trai fenomeni più drammatici che emergono dalle conversazioni tra il protagonista e le persone che lo circondano ci sono la fioritura di alghe tossiche nelle acque del golfo dell’Alaska a seguito del surriscaldamento, gli incendi di massa in California, le piogge torrenziali in Cina, la plastica ritrovata nel ventre di una balena spiaggiata nei mari delle Filippine, sino all’invasione di locuste in Yemen.

Ci viene inoltre riferito che il 2019 è stato, in media, il secondo anno più caldo degli ultimi 2000 anni e che di questo passo, a causa del riscaldamento globale e quindi del disgelo di calotte polari e ghiacciai, è previsto un innalzamento degli oceani di almeno 50 cm entro il 2100, e tale processo è destinato a perdurare per secoli. Ma questo già lo sapevamo.

Alla domanda sul tipo di mondo a cui dovremmo abituarci la risposta laconica è: uno dove da una parte si muore di sete e dall’altra si annega.

Per spiegare il disinteresse generalizzato a questa dato drammatico l’autore introduce il concetto di gradualismo, a cui la nostra mente tenderebbe naturalmente a conformarsi: se le cose sono sempre andate in un certo modo, perché dovrebbero cambiare proprio adesso? L’umanità abita lo stesso pianeta da 200.000 anni, possibile che debba precipitare tutto proprio mentre sono in vita io?

In realtà, ci conferma Giordano, siamo in piena Era Pre-traumatica, l’epoca in cui sta cambiando tutto, drasticamente.

Volenti o nolenti, succede proprio a noi, e i fenomeni a cui assisteremo nei prossimi anni saranno sempre più estremi. Prima lo si accetta e meglio è per tutti, a meno che non ci si chiami Elon Musk e si possa trasmigrare in un’altra galassia.

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