Diritti

Gender equality? L’esempio arriva dal Giappone

Makiko Ono è la prima amministratrice delegata donna di Suntory Beverage & Food. Nel Paese, però, le dirigenti donne sono ancora in minoranza
Credit: Crediti: NTT Plala, Tokyo, Giappone. Via: Gensler.com
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
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9 dicembre 2022 Aggiornato alle 07:00

Le dirigenti in Giappone sono una piccola minoranza. Le carriere come quella di Makiko Ono, nominata amministratrice delegata di una delle più antiche aziende di distribuzione di bevande alcoliche del Paese, Suntory, sono una rarità nel Paese del Sol Levante.

Lo racconta il Financial Times, che punta i riflettori non solo sulla storia di una donna al vertice, ma soprattutto sulle necessità di fare qualcosa di concreto per superare il divario di genere. Il percorso di Ono inizia negli anni Ottanta: fresca di laurea in lingue straniere, si candida per un posto di lavoro da Suntory, incoraggiata dall’insolita presenza di femminile tra le dipendenti delle risorse umane, pensa che possa trattarsi di un’azienda capace di far avanzare anche le donne nella loro carriera. La nomina ad amministratrice delegata della scorsa settimana è segno che Ono ci aveva visto bene, all’epoca.

La dirigente, che ha studiato portoghese alla Tokyo University of Foreign Studies e poi ha frequentato un master a Losanna, è entrata a far parte del team di fusioni e acquisizioni di Suntory nel 1982, poco dopo il suo ingresso. 9 anni dopo è stata la prima dipendente donna a essere inviata in Francia per gestire un’azienda vinicola che la società aveva acquistato: da vicedirettrice generale di Suntory France, ha sviluppato la filiale vinicola del gruppo a Bordeaux, acquisendo un’ampia esperienza nel marketing, nelle risorse umane e nelle comunicazioni aziendali. Poi, durante la pandemia da Covid-19, è diventata responsabile di Orangina, l’azienda francese di soft-drink che Suntory ha acquistato nel 2009.

A gennaio di quest’anno la 62enne è stata nominata responsabile della sostenibilità di Suntory Holdings, che spesso è la posizione di arrivo delle donne nelle aziende giapponesi. Nonostante il programma womenomics, promosso dal governo del defunto primo ministro Shinzo Abe a partire dal 2013, solo l’8,2% di 1,2 milioni di aziende giapponesi ha un presidente donna, secondo un’indagine della società di ricerca Teikoku Databank. Di queste, più della metà ha ereditato la posizione di vertice attraverso un’azienda di famiglia.

Secondo l’International Monetary Fund, il Giappone non sta facendo progressi nella parità di genere, almeno rispetto al resto del mondo: nonostante i recenti tentativi del governo di approvare leggi che promuovono l’attività economica delle donne, il Giappone si è classificato 110° su 149 nel Gender Gap Index 2018 del World Economic Forum, che valuta i Paesi in base ai loro progressi verso la parità di genere in quattro aree principali. Anche se ha scalato la classifica di 3 posizioni rispetto al 2017, è comunque inferiore rispetto agli anni precedenti.

Tra le ragioni principali dello scarso posizionamento, c’è l’ampio divario salariale tra i sessi: con il 24,5% nel 2018, è il secondo più grande tra i Paesi dell’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, secondo solo dalla Corea del Sud. Le donne, poi, sono in maggioranza lavoratrici “non regolari”, quindi non tutelate, con salari bassi e contratti a tempo determinato: poco più del 53% delle occupate tra i 20 e i 65 anni rientra nella categoria dei non regolari, rispetto al 14,1% degli uomini occupati nel 2014.

Tra le donne manager, poi, il divario è ancora più netto: secondo un’indagine del 2016 condotta dal Ministero della Salute, del Lavoro e del Welfare, le donne occupano il 6,4% delle posizioni di direttore di dipartimento o ruolo equivalente, l’8,9% di capo sezione, e il 14,7% di supervisore di unità operativa. Ono, che è una donna single, ha detto di aver beneficiato della mentalità aperta dei vertici dell’azienda.

L’attuale primo ministro Fumio Kishida ha inserito l’indipendenza economica delle donne tra i pilastri del suo programma economico e sta promuovendo programmi di sussidio per le madri che lavorano, per esempio rivedendo il sistema di incentivi per aumentare l’assunzione di prova di nuovi dipendenti non regolari per includere le madri che lasciano il lavoro a tempo pieno per prendersi cura dei propri figli.

Ma nel Paese c’è ancora una tendenza culturale a valutare i dipendenti in base al numero di ore lavorate invece che al loro effettivo rendimento. Per questo, in alcune aziende, spiega il Financial Times, le donne vengono di fatto retrocesse quando rientrano dal congedo di maternità. Sebbene il governo abbia incoraggiato il passaggio a un sistema basato sul merito, l’attenzione alle ore di lavoro continua a essere forte, soprattutto per le piccole e medie imprese.

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