Diritti

Quello che i media non sanno dell’Iran

Sono le voci di Mahbod, Laleh, Shadi e Niloofar a raccontarcelo: di ciò che sta accadendo nel Paese non conosciamo nulla
Credit: EPA/ STR 
Tempo di lettura 6 min lettura
7 dicembre 2022 Aggiornato alle 07:00

Domenica, vento freddo e aria a neve. Mi suona il telefono, lo prendo e leggo: una notifica mi avvisa che “il governo iraniano ha deciso di abolire la polizia morale dopo mesi di proteste”. Una notizia ben accolta dai media che però mi lascia con molti dubbi.

Apro WhatsApp, scrivo a Mahbod che ha lasciato l’Iran da molti anni e che adesso vive in Italia.

Gli chiedo cosa significhi per l’Iran questa decisione e se potesse dirmi di più, aiutarmi a tradurre dal persiano all’inglese. “Ci penso io”, mi dice. Poi aggiunge: “questa è tutta una facciata”.

A Bruxelles, nel cuore dell’Unione europea, c’è un comune che si chiama Etterbeek. Di fronte agli uffici che ospitano il sindaco, si trova un cartello, accompagnato da queste parole:

“Davanti all’oppressione strutturale che subiscono le donne iraniane nel loro Paese, il comune di Etterbeek desidera unire la propria voce all’indignazione e affiggere il proprio augurio nei confronti delle donne e degli uomini che si battono per la libertà ”.

Parte del mondo al di fuori dai confini iraniani ha sostenuto e sta sostenendo le proteste dei persiani dentro e fuori dall’Iran, spinti dalla forza della diaspora iraniana. Il 19 novembre uno sciopero generale ha coinvolto persone da tutto il mondo: mentre il Gran Bazaar di Teheran restava chiuso perché i negozianti erano per strada a protestare, le voci si sono alzate a Londra, a Firenze, a Berlino e in molte altre città.

Piccoli o grandi gruppi di persone, con in mano la bandiera verde, bianca e rossa e il leone dorato al centro hanno cantato e suonato musiche di resistenza e accolto gli abbracci di passanti più o meno curiosi. Ma questo basta a fermare un regime?

“È questo, seppur limitato, sostegno che temo verrà a mancare”, mi dice Mahbod. Il ruolo giocato dai media internazionali non è mai stato così importante per gli iraniani, così come l’attiva partecipazione delle istituzioni internazionali: tra chi ha si è detta dalla parte del popolo di Teheran anche le Presidenti della Commissione europea Ursula von der Leyen e del Parlamento europeo Roberta Metsola che, durante un suo discorso davanti agli eurodeputati, ha annunciato che l’istituzione non si sarebbe più relazionata con le autorità iraniane.

Apro di nuovo WhatsApp e scrivo un messaggio in un gruppo che condivido con amici di Mahbod. Chiedo: “cosa ne pensate?”. Pochi secondi dopo ricevo un messaggio da Roshanak

(nome di fantasia). Va dritta al punto, mi spiega: “Il regime non ha ancora annunciato niente ufficialmente, si tratta solo di una frase pronunciata da un ufficiale durante un evento. In ogni caso, anche se questa proposta venisse accolta, non cancella il fatto che indossare un hijab è sempre obbligatorio per le donne che vivono sotto la legge del regime.

Un esempio? La scorsa settimana un ufficiale ha annunciato che le donne che non vestono correttamente l’hijab non potranno usufruire dei servizi sociali. È disinformazione che arriva direttamente dal governo per allentare la pressione internazionale e dividere chi protesta. Il regime sta provando a neutralizzare i futuri scioperi. Inoltre, con o senza la polizia morale, ciò che vogliamo è la fine di questo governo dispotico”.

A giocare un ruolo fondamentale è anche l’attenzione a livello internazionale scatenata dai mondiali di calcio in Qatar, vetrina planetaria che ha portato ancora più luce su quanto stia accadendo in Iran: a partire dai calciatori della nazionale di Teheran che si rifiutano di cantare l’inno, fino alla tifosa con le lacrime di sangue disegnate sul volto e una maglia con scritto Masha Amini.

Il mondo intero - compreso il governo iraniano - è stato costretto, volente o nolente, a guardare alla eco mediatica che le proteste in Iran hanno scatenato. Cerco altri articoli: su testate internazionali si legge di animi sollevati da questa notizia, il New York Times intitola “l’Iran abolisce la polizia morale dopo mesi di protesta. La svolta sembra essere una

concessione al movimento di protesta che è nato in seguito alla morte di Mahsa Amini”. È Laleh (nome di fantasia) a inviarmi due screenshot di alcuni commenti che sue amiche hanno condiviso nelle loro Instagram Stories. Nella prima si legge ”Perché i media occidentali non verificano i fatti prima di mettere nero su bianco? La polizia morale non è mai stata abolita”. E ancora: “Questa è una tattica per mettere fine alle proteste e per offrire un titolo da prima pagina ai media stranieri per far sì che chi supporta il movimento venga sviato”.

In poche parole, i titoli delle ultime ore non sono che propaganda.

Rileggo le email e gli scambi che ho avuto nelle scorse settimane con le amiche di Mahbod e cerco di ripercorrere cos’è successo negli ultimi anni, ma soprattutto chiedendomi ancora una volta in che modo i media fuori dal confine iraniano abbiano descritto la situazione. Un argomento su cui ho riflettuto molto, soprattutto con Mitra (nome di fantasia). Mitra vive in Europa e nelle sue vene scorrono sangue iraniano e sangue tedesco.

Fin da piccola ha visitato ogni anno la sua famiglia in Iran e in questo periodo queste sue parti si sono unite ancora di più. È lei a raccontarmi di come i media tedeschi abbiano reagito tardi e di come il servizio pubblico stia affrontando superficialmente l’argomento.

Mitra non si ferma, continua e mi racconta del suo anno di studi a Teheran e dei suoi amici che, così come durante le dimostrazioni del 2009 e del 2011, ancora oggi scendono in piazza per far sentire la loro voce: “Oggi hanno figli e hanno paura per il loro futuro”.

È Shadi, invece, a soffermarsi sul perché il caso di Mahsa Amini abbia fatto così scalpore. In un flusso di parole sottolinea quanto importante sia diventata oggi l’immagine, condivisibile sui social e quindi potenzialmente visibile da ogni essere umano sulla Terra. La nostra è l’era del sangue condiviso su Twitter, delle violenze condivise su Instagram. Nessuno può chiudere gli occhi davanti a questo. Mahsa Amini è stata la sola a essere uccisa per aver indossato male il velo, le chiedo.

Senza indugi Shadi risponde: è certamente la prima la cui immagine ha fatto il giro del pianeta.

Torno al gruppo, chiedo se secondo loro i media occidentali stanno descrivendo a fondo i fatti dell’Iran. La risposta è corale: no. No perché non ci sono giornalisti sul campo e no perché non c’è abbastanza sforzo di comunicare le proteste. È Mahbod ad aggiungere quanto anche solo il titolo “proteste per l’hijab” sia una diminuzione di quanto sta realmente accadendo: “il mio Paese chiede riforme essenziali. Mettere tutto sotto un solo cappello non fa che sminuire la morte dei molti che sono stati uccisi dal regime”.

Niloofar (nome di fantasia) mi racconta di aver partecipato a una catena umana, qualche settimana fa, a Londra: nessun media britannico ha riportato la notizia: “non ha alcun senso”,

aggiunge. “Donne, vita e libertà è una delle frasi più belle che abbia mai sentito in vita mia”, scrive ancora Mahbod. Continua: “Ho lasciato il mio Paese e ricominciato da zero in Italia. Ho imparato una nuova lingua, studiato in una nuova università, ho imparato a relazionarmi con una nuova cultura. Ma non smetterò mai di sognare il mio rientro in Iran. Una Madrepatria a cui il regime sta togliendo sempre e sempre di più”.

Ringrazio i miei amici, metto via il telefono, inizio a scrivere. Che la nostra sia per loro la voce che chiede libertà.

Leggi anche
Calcio
di Maria Michela D'Alessandro 3 min lettura