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Gli italiani conoscono il riutilizzo dei materiali?

La Commissione Ue ci chiede di abolire il monouso. L’Italia, come al solito, reagisce dicendo che non si può mettere in crisi l’industria e che il riciclo è più virtuoso. Siamo sicuri?
Credit: Waldemar Brandt/unsplash

Ci risiamo. Come per la questione della cosiddetta plastica biodegradabile - filone nel quale l’Italia ha investito senza farsi domande, salvo poi sentirsi dire dall’Europa che non era in alcun modo una soluzione, perché la vera soluzione per liberarsi dalla plastica è liberarsi dal monouso – allo stesso modo oggi lo scontro tra Italia e la Commissione europea è tra il riciclo e il riutilizzo. Ancor prima che due pratiche diverse, due visioni filosofiche e modi di pensare opposti.

Gli italiani non sanno cosa sia il riuso

L’Italia, da sempre, ha scelto la prima strada: raccolta differenziata, riciclo dei rifiuti, con livelli molto alti rispetto alla media europea, arrivando al 73,3% degli imballaggi riciclati (ma la situazione nel Paese è assolutamente eterogenea).

Peccato che l’Europa, appunto, abbia indicato un’altra strada, sotto la spinta, forse, dei Paesi frugali del nord, che il riciclo lo fanno poco. Ovvero il riutilizzo dei materiali, per ridurre il packaging, quello che sta soffocando il Pianeta, del 15% entro il 2040. Un obiettivo perfettamente raggiungibile e che significa, semplicemente, che le persone vanno educate a usare un contenitore e poi restituirli. Che sia una bottiglia d’acqua come una zuccheriera al bar.

L’obiettivo è quello contrastare il fenomeno da anni fuori controllo del monouso e la convinzione che se tutto non è perfettamente imballato, sterilizzato, personalizzato allora non può essere usato.

Per esempio, la decisione sempre della Commissione di vietare il monouso nel settore degli alberghi è sacrosanta. Siamo talmente assuefatti ad avere i nostri flaconcini personalizzati che ormai quasi ci scoccia se nella stanza troviamo invece un unico dispenser di sapone toccato da chissà da quali altre mani. E non ci rendiamo conto non solo che per lo più i flaconcini monouso restano inutilizzati da noi per primi, ma creano una quantità di rifiuti di plastica inimmaginabile.

Ma siamo talmente analfabeti dal punto di vista del riutilizzo che ci scoccia pure prendere lo zucchero da una zuccheriera comune oppure usare una confezione di ketchup aperta, cosa che dovremo fare visto che sempre l’Ue ha vietato bustine di zucchero e di maionese e ketchup.

Per riciclare serve energia

Come al solito, a difendere il riciclo e insieme il monouso si sono alzate le voci di Confindustria e degli industriali del packaging ed è sicuro che il nuovo governo, e il nuovo ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica starà dalla loro parte. Certo, è ovvio che se si riduce il monouso ci saranno industrie che dovranno fare un passo indietro, eventualmente riconvertirsi. Per questo, infatti, si parla di “transizione” ecologica.

E no, non si può dire che tanto la plastica, così come tutto il resto, si ricicla perché riciclare è un processo costoso, che richiede energia, e dunque produce CO2, altro che far del bene all’ambiente. Sempre che poi il riciclo venga fatto correttamente quando spesso - parlo a esempio della mia città, Roma – di fatto una quantità enorme di materiali riciclabili finiscono in discarica.

L’economia circolare parte dal riuso

È altrettanto sbagliato sostenere che la decisione della Commissione metta in discussione l’economia circolare.

Riciclare è un bel verbo, ma nel lessico dell’economia circolare ancora prima di esso esiste il riuso. E solo dopo che si è riutilizzato e che il contenitore è stato buttato subentra appunto il riciclo. La gerarchia va pensata così, non con il riciclo come prima istanza.

Di nuovo lo si vede a Roma, dove il problema sta nell’enorme quantità di rifiuti, causata dagli imballaggi, che impedisce la differenziata e dunque rende difficile il riciclo. La strada sta nella riduzione dei rifiuti, perché la loro massa è ormai incontrollata.

Anche qui, si scontrano due visioni filosofiche diverse: chi sostiene che non si debbano cambiare abitudini, ma solo tecnologie, e che quindi la tecnologia ci consente di continuare a fare esattamente come prima. E chi sostiene che per contrastare la crisi climatica occorra cambiare abitudini e atteggiamenti. Se non la volete chiamare decrescita, chiamatela semplicemente una nuova attitudine. Nel caso del riuso, non certo particolarmente dolorosa.

Covid e cibo da asporto ci hanno legato al monouso

Purtroppo il Covid ha diffuso ancor di più la mentalità del monouso, convincendoci che non è possibile condividere nulla pena, appunto, il contagio. Ma ciò che non viene mai detto è che il virus è legato alla devastazione ambientale, quella devastazione a cui la plastica e la quantità inimmaginabile di contenitori contribuisce.

Oltre al Covid, un altro aspetto ci sta ancora più legando alla dittatura del monouso: la diffusione veramente incontrollata del cibo da asporto. Che produce quantità di contenitori di plastica che si potrebbero risparmiare.

In parte, tra l’altro, i due approcci possono anche essere complementari. Quando parliamo, di acciaio, di carta, è ovvio che il riciclo è fondamentale, ma se parliamo di bottiglie di plastica e contenitori di ogni sorta no. È fondamentale, ripeto, che anche in Italia cominci a diffondersi la mentalità del riutilizzo, come – per fare un altro esempio - l’utilizzo di prodotti alla spina, detersivi compresi. Un modo di agire e consumare che le grandi aziende avversano, e lo si vede, perché a differenza che in Francia, i prodotti alla spina non esistono al supermercato, sarebbero una sorta di eresia: perché, parliamoci chiaro, quando le aziende vendono grandi spray di plastica dura per detergere o grossi flaconi di sapone per lavatrice o bagnoschiuma il contenitore diventa un ulteriore prodotto da vendere insieme al contenuto. Che dopo pochi giorni finisce, appunto, nella pattumiera, pronto per essere riciclato quando avrebbe potuto, semplicemente, essere riutilizzato.

Un problema, come al solito, culturale

In fondo, è sempre un fattore culturale: il monouso riflette il nostro individualismo, il fatto che ci concepiamo come monadi chiuse e consumiamo appunto in modo individualistico, soggettivo. Il riuso ci parla di condivisione, di un modo di vivere comune, dove una cosa un giorno la uso io, poi, lavata, il giorno dopo la usi tu. Un modo di agire da sempre praticato dall’umanità e che noi siamo stati capaci di cancellare, rendendolo qualcosa di bizzarro se non addirittura pericoloso.

Ma non c’è, dubbio, questa è la strada, pratica e concettuale. Il governo si opporrà, Confindustria pure, ma non possiamo diminuire la quantità di materia artificiale dispersa nel mondo senza toccare il monouso o diminuire i prodotti da riciclare. Semplicemente, non c’è un’altra alternativa. D’altronde, se non sappiamo neanche rinunciare a una bustina di zucchero chiusa, come fermeremo l’Apocalisse climatica?

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