Economia

Investimenti sostenibili? Siamo ancora lontani ma fiduciosi

È quanto emerso nel report Simplified reading of the European taxonomy and first assessment of its implications, realizzato su un campione di 1391 aziende europee con un fatturato complessivo di 10.000 miliardi di dollari
Credit: Pexels 
Tempo di lettura 5 min lettura
2 dicembre 2022 Aggiornato alle 18:00

Il regolamento europeo Sustainable Finance Disclosure Regulation (Sfdr), entrato in vigore il 10 marzo dell’anno scorso, si pone come scopo la creazione di un modello di informazioni sui settori ambientali, sociali e di governance (cioè il ‘governo’ di una società) a cui tutti i gestori di fondi comuni d’investimento si devono uniformare, in modo tale da confrontare i prodotti finanziari presenti sul mercato e distinguere con chiarezza quale sia il più sostenibile e quale no.

Affinché si riesca a categorizzare i prodotti in base al rischio di sostenibilità e ai loro principali impatti, è necessario lo strumento della tassonomia europea, la classificazione di tutte quelle attività economiche che possono essere riconosciute come green o ecosostenibili, definita dalla Commissione europea come “una guida pratica per politici, imprese e investitori su come investire in attività economiche che contribuiscano ad avere un’economia che non impatti negativamente sull’ambiente”.

Si tratta quindi di regole che si propongono non solo di indirizzare i flussi di capitale verso attività che favoriscono la transizione energetica, ma anche di prevenire il fenomeno del greenwashing, attraverso il quale le imprese più furbe ‘tingono di verde’ le loro attività spacciandole come ecosostenibili, quando in realtà non lo sono.

È proprio questa tassonomia il punto centrale del primo rapporto annuale di O-Fire, Osservatorio sulla Finanza d’Impatto e sue Ricadute Economiche, lanciato dall’Università di Milano-Bicocca insieme a Banca Generali, ai partner dell’asset management (Generali Investments, Pictet, Ubs) e Aifi (Associazione italiana del private equity, venture capital e private debt).

Il rapporto, intitolato “Simplified reading” of the European taxonomy and first assessment of its implications, è stato realizzato su un campione di 1391 aziende europee con un fatturato complessivo di 10.000 miliardi di dollari e, secondo quanto riportato nella nota di Banca Generali, rivela che “in Europa c’è ancora molta strada da fare per avere un quadro di regole e criteri universalmente riconosciuti”.

Un altro elemento significativo nel report sono le variabili Esg, sigla che indica un elemento - non strettamente finanziario - di valutazione delle aziende che si compone di: Environment, cioè l’impatto concreto che una società ha sull’ambiente; Social, in cui rientra il rispetto che ha verso i diritti dei dipendenti e dei clienti, cioè gli stakeholder; Governance, che comprende le informazioni riguardanti i manager della società (ci si chiede a esempio se la loro retribuzione sia collegata a obiettivi di sostenibilità).

L’Osservatorio ha esaminato le aziende prendendo a riferimento oltre 800 variabili Esg a loro riferibili, di cui 370 relative all’ambiente, come le emissioni, l’impronta di carbonio, le fonti rinnovabili, l’efficienza energetica, i consumi di acqua, la biodiversità e l’uso del suolo.

Alla luce dei dati esposti alla presentazione martedì 29 novembre all’Auditorium “Guido Martinotti” dell’Università di Milano-Bicocca, si evince che “quello che i ricercatori hanno riscontrato è stato un disallineamento tra queste variabili e quelle contenute nei criteri della Tassonomia”.

Ciò vuol dire che quelle variabili utilizzate per stabilire, a esempio, quante aziende europee negli ultimi anni avessero implementato un programma di abbattimento delle emissioni, non rendono comunque possibile quantificare la percentuale di imprese che possono oggi ritenersi conformi (o ‘compliant’) con la tassonomia europea.

“Verrebbe da dire che nessuno a oggi può considerarsi allineato con la tassonomia - precisano con sconforto i ricercatori - c’è un grande gap da colmare, che richiede uno sforzo considerevole da parte dei destinatari della tassonomia, sia di tipo comunicativo, sul fronte delle attività di rendicontazione e reporting non finanziario d’impresa, sia di tipo economico-finanziario, legato agli investimenti necessari affinché le attività economiche possano considerarsi sostenibili secondo i criteri del regolamento europeo”.

Tuttavia, dall’analisi incrociata di autorevoli fonti di ricerca come Morningstar, Bloomberg e Ocse, l’O-Fire ha rilevato una maggiore “resilienza” degli investimenti nei fondi sostenibili, che registrano nel terzo trimestre afflussi netti per 23 miliardi di dollari contro i 35 del trimestre precedente e i circa 80 del primo trimestre, a fronte dei forti deflussi (quindi uscite) subiti dagli investimenti convenzionali dei fondi del mercato generalizzato, pari a circa 280 miliardi nel secondo trimestre e 200 nel terzo.

La transizione sostenibile delle imprese e dunque degli investimenti finanziari, ha ancora molta strada da fare. D’altronde la sostenibilità è ormai un valore di fondamentale rilevanza per la solidità di un’azienda, e l’analisi Esg è il vero banco di prova dove si analizzano tutte le misure messe in campo per limitare il proprio impatto sull’ambiente e sulla socialità, rischiando pesanti sanzioni economiche e reputazionali.

«Dopo una prima fase di forte crescita delle sensibilità ambientali e dell’offerta di investimenti Esg - commenta Andrea Ragaini, Vice Direttore generale di Banca Generali - serve ora focalizzarsi sulla definizione delle best practices e indirizzare in modo ancora più costruttivo questo percorso virtuoso».

Leggi anche
Economia
di Giacomo Talignani 3 min lettura