Diritti

Studenti, è l’ora dei quiet quitters

Lavorare, ma non troppo, per preservare il benessere personale. 1 ragazzo su 7 tra i 10 e i 19 anni, dice l’Unicef, soffre di disturbi legati alla salute mentale e il 66% vorrebbe che ad aiutarli fosse la scuola
Credit: Taisiia Stupak/pex
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1 dicembre 2022 Aggiornato alle 11:30

In America, un sondaggio del gennaio 2022 effettuato tra i membri della National Education Association, ha rivelato che il 55% degli educatori stava valutando di lasciare il proprio posto di lavoro, mentre il New York Times a settembre, con l’inizio dell’anno scolastico, ha denunciato un allarmante esodo degli insegnanti, causato da una politica miope che ha investito sempre meno in istruzione e ha abbandonato gli insegnanti durante i mesi della pandemia da Covid-19, rendendoli macchine da lavoro, reperibili 24 ore su 24 tra riunioni, lezioni, incontri e colloqui dalla durata imprecisata.

In Italia la tendenza è molto simile, ma sembra riversarsi, più che sul corpo docente, sugli studenti.

Così, se in America si è fatto strada in maniera rapidissima il fenomeno della Great Resignation, ossia delle dimissioni di massa causate di un’insoddisfacente vita lavorativa e in nome di una serenità personale, nel nostro Paese a spopolare è il quiet quitting. Letteralmente, “abbandono in silenzio”. Precisamente: lavorare sì, ma non troppo, alla ricerca del giusto equilibrio tra vita lavorativa e vita privata, oltre che di un benessere psicologico.

Un’onda virale che è partita a luglio di quest’anno da Zaid Khan, un ingegnere 24enne di New York, che con un video di pochi secondi, ricondiviso milioni di volte, ha voluto porre la prima pietra per un muro contro la hustle culture, la cultura del lavoro estremo per il raggiungimento della realizzazione personale, quella secondo cui lavorare o studiare 24 ore su 24 e 7 giorni su 7 è giusto e normale.

Sembrano spariti i “giovani wannabe”: nessuna aspirazione, nessun “voler essere”. La voglia di fare c’è, ma quanto basta. Sono nati i quiet quitters.

Mentre le opinioni si dividono tra chi etichetta i giovani come “fannulloni che non hanno voglia e spirito di sacrificio” e chi sostiene l’ideale di una cultura che coltiva il benessere mentale, il Wall Street Journal descrive quello del quiet quitting come un fenomeno del mondo studentesco che non vuole troppe preoccupazioni o responsabilità e si approccia agli studi superiori o al mondo del lavoro meno preparato e desideroso di superare i carichi di lavoro.

È un modo di affrontare gli studi senza stress o ansie, insomma. Un nuovo trend in cui «Si continua a svolgere i propri compiti, ma non si aderisce più alla cultura della competizione verso se stessi e gli altri, quella secondo cui il lavoro deve essere la nostra vita», spiega Zaid nel suo video.

Una nuova tendenza nel mondo della scuola in cui gli studenti della generazione Z sono dentro con tutte le scarpe e che rischia di trasformarsi pericolosamente in una sorta di apatia nei confronti della vita, trovando come sua massima espressione il silenzioso allontanamento da possibili imprevisti e responsabilità.

Un sentimento apatico, quello verso cui viaggiano i giovani d’oggi, che si evidenzia anche nel rapporto pubblicato dall’Unicef sulla condizione degli adolescenti in occasione della Giornata italiana dell’infanzia e dell’adolescenza celebrata lo scorso 10 ottobre.

Secondo il sondaggio, 1 ragazzo su 7 tra i 10 e i 19 anni soffre di disturbi legati alla salute mentale e ogni 11 minuti un ragazzo nel mondo si toglie la vita rendendo il suicidio la quinta causa di morte dei giovani (la seconda in Europa).

Ciò che porta a riflettere è che, proprio nello stesso rapporto condotto dalla Onlus, il 66% dei giovani intervistati abbia richiesto maggiore supporto e attenzione alla salute mentale proprio da parte delle scuole, luogo in cui ancora sentono di poter trovare rifugio e aiuto, nonostante la difficoltà dei nostri anni e l’isolamento in cui si stanno incastrando quei giovani apatici, disillusi dal mondo.

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