Culture

“She said”, il film che svela la prima inchiesta contro Harvey Weinstein

La pellicola ricostruisce l’indagine delle due reporter del New York Times Megan Twohey e Jodi Kantor. Che, nel 2017, si occuparono dei casi di molestie sessuali perpetrate dall’allora produttore di Hollywood
La copertina della pellicola "She said", distribuita da Universal Pictures
La copertina della pellicola "She said", distribuita da Universal Pictures Credit: Via SHE SAID | Official Trailer
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
28 novembre 2022 Aggiornato alle 21:00

“Due decenni fa, il produttore hollywoodiano Harvey Weinstein invitò Ashley Judd all’hotel Peninsula di Beverly Hills per quella che la giovane attrice si aspettava fosse una colazione di lavoro. Invece la fece salire nella sua stanza, dove si presentò in accappatoio e le chiese se poteva farle un massaggio o se poteva guardarlo mentre si faceva la doccia, come lei ha ricordato in un’intervista”. Comincia così l’inchiesta pubblicata il 5 ottobre 2017 dalle due reporter del New York Times Jodi Kantor e Megan Twohey: parla di loro il film “She said”, (tradotto per il pubblico italiano in “Anche io”), proiettato alla 40esima edizione del Torino Film Festival in programma dal 25 novembre al 3 dicembre.

L’indagine ha dato il via al Me Too, il movimento che ha spinto migliaia di donne a denunciare le molestie e gli abusi sessuali subiti sui luoghi di lavoro e di socializzazione, non solo nel settore cinematografico. Nel 2018 il reportage è stato premiato con il premio Pulitzer per il servizio pubblico insieme all’inchiesta del giornalista e figlio della celebre coppia Mia Farrow e Woody Allen, Ronan Farrow, pubblicata cinque giorni dopo sul New Yorker: “Il 5 ottobre, il New York Times, in un poderoso reportage di Jodi Kantor e Megan Twohey, ha rivelato molteplici accuse di molestie sessuali contro Weinstein, un articolo che ha portato alle dimissioni di quattro membri del consiglio di amministrazione della Weinstein Company, composto da soli uomini, e al licenziamento di Weinstein”, scrive Farrow. “La storia, tuttavia, è complessa e c’è ancora molto da sapere e da capire”. La sua inchiesta, durata dieci mesi, riporta le testimonianze di tredici donne, molestate e aggredite sessualmente da Weinstein tra gli anni Novanta e il 2015.

Quella condotta dalle due reporter del New York Times, raccontata da Kantor e Twohey nel libro intitolato “She said. Breaking the Sexual Harassment Story That Helped Ignite a Movement”, è stata adattata dalla drammaturga e sceneggiatrice britannica Rebecca Lenkiewicz che l’ha portata sul grande schermo. Alla regia c’è Maria Schrader, nota per aver diretto la fortunata miniserie Netflix Unorthodox.

La pellicola inizia non nella redazione del celebre quotidiano statunitense, né in una delle suite d’albergo di Weinstein, ma in Irlanda, trent’anni fa, quando una giovane donna inizia a inserirsi in una troupe cinematografica. Poco dopo, però, lo spettatore la vede correre lungo una strada cittadina, presumibilmente vittima di un’aggressione. Poi si torna all’attualità, o meglio, al 2016: Twohey, interpretata dall’attrice britannica Carey Mulligan, si sta occupando delle denunce mosse da alcune donne nei confronti dell’allora candidato alle presidenziali americane Donald Trump, mentre Kantor, che nel film è impersonata dalla statunitense Zoe Kazan, scrive di rifugiati siriani.

Le due donne, dividendosi tra famiglia, figli e lavoro, come sottolinea la pellicola in numerose scene, cercheranno di convincere numerose donne, tra cui l’attrice Ashley Judd, che compare nel film nella parte di se stessa, a raccontare loro quanto successo in passato, possibilmente “on the record”: dall’inglese “to record”, che significa registrare, si riferisce alle testimonianze pubblicabili con il permesso del testimone e attribuibili, in questo caso, alle donne intervistate dalle due reporter. La svolta arriverà quando una di loro accetterà di rendere pubblico quanto raccontato “off the record”, ma anche con l’incontro con una fonte all’interno della Weistein Company, la casa di distribuzione e produzione cinematografica statunitense fondata dai fratelli Harvey e Bob Weinstein, e con uno degli avvocati del produttore cinematografico.

L’uomo non viene mai mostrato in volto, ma si sente la sua voce registrata e si vede la schiena di chi lo interpreta, Mike Houston, quando si reca nella redazione più famosa del mondo. In questo modo l’attenzione rimane incentrata sulle donne che lo accusano e sul lavoro sulle giornaliste che, con fatica, ricostruiscono la storia che ha sconvolto Hollywood (anche se, ormai lo sappiamo, molti erano a conoscenza di quello che accadeva dentro e fuori dai set di Weistein). Il ritmo del thriller sembra volutamente lento, attento a non sgualcire l’attenzione con cui le due giornaliste si approcciano alla vicenda e ascoltano le terribili testimonianze di quelle che all’epoca dei fatti erano giovanissime assistenti alla regia, attrici o membri dello staff di Weinstein.

La pellicola arriva due anni e mezzo dopo la condanna di Weinstein a ventitré anni di carcere da parte di una giuria di New York che l’ha giudicato colpevole di violenza sessuale criminale e stupro. Il settantenne è di nuovo sotto processo in California con altre 11 accuse e, come racconta il New York Times, i giurati del processo a ottobre hanno ricevuto una particolare istruzione da parte del giudice: non guardare il trailer di un film uscito nelle sale americane il 18 novembre: “She Said”.

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