Ambiente

Cosa si nasconde nei capi Shein?

Greenpeace ha testato i materiali dello shop ultra-fast fashion cinese: il 15% è «illegale a tutti gli effetti», con una quantità di elementi pericolosi superiore ai livelli consentiti dalle normative europee
Credit: Via slow-news.com
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25 novembre 2022 Aggiornato alle 20:00

Con pochi euro e un semplice click possiamo ordinare pacchi di vestiti che arrivano fino alle nostre case viaggiando dall’altra parte del mondo. È il bello del fast fashion, che però – oltre a impatti ambientali legati a produzione e trasporti – nasconde anche un volto meno noto: quello delle sostanze con cui vengono realizzati gli abiti.

Greenpeace, con un’indagine che si è concentrata su uno dei marchi più noti, il cinese Shein, ha tentato di far luce su quest’ultimo fenomeno.

L’associazione ambientalista ha acquistato 47 prodotti in Italia, Austria, Germania, Spagna e Svizzera con lo scopo di analizzarli in laboratorio: il 15% dei capi del marchio di ultra-fast fashion – analizzati dalla sede tedesca di Greenpeace – “ha fatto registrare una quantità di sostanze chimiche pericolose superiori ai livelli consentiti dalle leggi europee e sono da considerarsi illegali a tutti gli effetti” fanno sapere gli attivisti.

Inoltre, in altri quindici prodotti (32%) le concentrazioni di queste sostanze si sono attestate a livelli comunque preoccupanti. «L’uso di sostanze chimiche pericolose è alla base del modello di business di Shein, con alcuni prodotti illegali che stanno invadendo i mercati europei. Chi paga il prezzo più alto della dipendenza chimica sono i lavoratori che operano nelle filiere produttive del colosso cinese e sono esposti a seri rischi sanitari, ma anche le popolazioni che vivono in prossimità dei siti produttivi. Il fast fashion, per via dei suoi notevoli impatti ambientali, è da considerarsi incompatibile con un futuro rispettoso del pianeta e dei suoi abitanti. L’ultra-fast fashion addirittura aggrava gli impatti del settore e accelera la catastrofe climatica e ambientale. Per questo, deve essere fermato subito», dichiara senza mezzi termini Giuseppe Ungherese, responsabile campagna inquinamento di Greenpeace Italia.

Gli abiti e i prodotti analizzati fanno parte di quelle merci che vengono confezionate rapidamente e spedite, soprattutto a un pubblico giovane, in ogni parte del globo dove possono essere acquistate. Questo porta, oltre a impatti legati alle condizioni di lavoro ai trasporti, a «enormi quantità di rifiuti tessili inquinanti, che si aggiungono alle frequenti segnalazioni di casi di sfruttamento dei lavoratori. L’ultra-fast fashion porta agli estremi il fast fashion, già noto per gli enormi volumi di vestiti venduti e prodotti principalmente con fibre derivanti dal petrolio, la velocità con cui vengono immessi sul mercato e la quasi totale assenza di riciclo», sostiene ancora Greenpeace.

Entrando più nel dettaglio di quanto scoperto dal laboratorio indipendente che ha effettuato le analisi, e ricordando che l’industria della moda è responsabile di circa il 10% delle emissioni globali di gas serra oltre che una delle principali cause di inquinamento delle acque in tutto il mondo, il rapporto racconta come siano stati trovati elevati valori di diverse sostanze chimiche tra cui composti organici volatili, alchilfenoli etossilati, formaldeide, ftalati, Pfas, metalli pesanti.

La presenza di almeno una sostanza chimica pericolosa è stata infatti registrata nel 96% dei prodotti analizzati (45 dei 47 articoli sottoposti ad analisi di laboratorio), che comprendevano abiti e calzature per uomo, donna, bambino e neonato. Nello specifico però sono 7, su 47 prodotti analizzati (e dunque circa il 15%), le merci che contenevano sostanze chimiche pericolose in concentrazioni superiori ai limiti stabiliti dalle normative comunitarie europee secondo il regolamento Reach (Registration, Evaluation, Authorisation of Chemicals). Questi sette prodotti sono stati tutti realizzati interamente o in parte con materiali sintetici derivanti dalla raffinazione dei combustibili fossili (6 su 7 erano stivali o scarpe).

Inoltre Greenpeace fa sapere che “livelli molto elevati di ftalati sono stati trovati in 5 stivali o scarpe, con concentrazioni superiori a 100.000 mg/kg, rispetto al requisito del regolamento Reach dell’Ue (inferiore a 1.000 mg/kg). Il livello più alto di ftalati è stato riscontrato in alcuni stivali da neve neri acquistati in Svizzera, con 685.000 mg/kg di Dehp (un composto appartenente al gruppo degli ftalati)”.

La formaldeide è invece stata riscontrata “nel tutù colorato per bambina, in quantità pari a 130 mg/kg nel tulle viola e 40 mg/kg in un cinturino verde (entrambi superiori al valore soglia identificato dal Reach pari a 30 mg/kg)” mentre “il rilascio di nichel al di sopra dei requisiti è stato riscontrato in un paio di stivali rossi acquistati in Spagna”.

Infine, parlando anche delle difficoltà dei lavoratori delle sartorie nel Guangdong dove si trasformano ordini in prodotti sette giorni su sette, Greenpeace «chiede all’Unione Europea di applicare le leggi vigenti sulle sostanze chimiche pericolose, un requisito fondamentale per lo sviluppo di una vera economia circolare, e di attivarsi per eliminare il fast fashion, come peraltro indicato nella strategia europea sul tessile. Inoltre è necessario intervenire sullo sfruttamento della manodopera, sulle gravi conseguenze ambientali nelle fasi produttive e, infine, sulla gestione dei rifiuti a fine vita. Tutti questi aspetti devono essere affrontati urgentemente con un trattato globale e un approccio simile a quello attualmente in discussione sulla plastica, che affronti finalmente la gigantesca impronta ecologica dei settori del tessile e della moda», chiosa Ungherese.

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