Diritti

Grecia: processo alla solidarietà via mare

A Lesbo 24 persone sono state processate per aver soccorso i migranti in arrivo sull’isola. Il ricercatore Duncan McLean racconta su The Conversation i respingimenti illegali da parte delle autorità greche
Samos (Grecia). Un rifugiato vive in una tenda nel campo profughi di Samos, un'isola dell'Egeo orientale, in Grecia, il 23 maggio 2019.
Samos (Grecia). Un rifugiato vive in una tenda nel campo profughi di Samos, un'isola dell'Egeo orientale, in Grecia, il 23 maggio 2019. Credit: Lefteris Partsalis/Xinhua via ZUMA Wire
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 6 min lettura
11 gennaio 2023 Aggiornato alle 17:00

If helping is a crime, we are all criminals”, ovvero: se aiutare è un crimine, allora siamo tutti criminali.

Uno striscione appeso davanti a un tribunale di Mitilene, sull’isola di Lesbo, si schiera dalla parte delle 24 persone, tra operatori umanitari e volontari, processate martedì 10 gennaio per aver soccorso dei migranti nel Mediterraneo circa quattro anni fa. Sono accusate di vari reati, tra cui traffico di esseri umani, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, spionaggio e riciclaggio di denaro. Secondo le autorità avrebbero facilitato l’arrivo dei naufraghi dalla Turchia, collaborando con organizzazioni criminali che gestiscono il traffico di esseri umani.

Gli imputati, che all’epoca operavano per la ong Emergency Response Centre International, hanno negato tutte le accuse. Tra di loro c’è anche l’operatrice umanitaria siriana Sarah Mardini, arrivata nel 2015 sulla costa greca dopo essere fuggita dalla guerra nel suo Paese.

La sua storia è raccontata nel film The swimmers: lei e sua sorella Yusra, oggi nuotatrice professionista che ha partecipato ai Giochi di Rio del 2016, salvarono la vita a 18 naufraghi con cui erano in viaggio verso Lesbo, in seguito a un guasto all’imbarcazione su cui si trovavano. Mardini ha già trascorso più di tre mesi in carcere, nel 2018, con l’accusa di reati minori.

Amnesty International ha definito il procedimento di martedì una «farsa»: Nils Muiznieks, direttore dell’Ufficio europeo della ong, ha dichiarato che «questo processo rivela come le autorità greche fanno di tutto per ostacolare l’assistenza umanitaria e scoraggiare migranti e rifugiati dal cercare sicurezza sulle coste del paese. Vediamo questo atteggiamento in un certo numero di Paesi europei». La sentenza è stata rimandata a venerdì.

Con la crisi dei rifugiati del 2015, la Grecia ha visto arrivare sulle sue coste circa un milione di migranti e rifugiati provenienti dalla vicina Turchia. Da allora, il Paese ha aumentato i pattugliamenti in mare vicino alle sue isole, anche se i funzionari greci parlano di una politica migratoria rigorosa ma equa.

Immersa nel mare Egeo orientale sorge l’isola di Samos, terra natale del matematico Pitagora. Insieme a Lesbo, è in prima linea nei tentativi di respingimento sempre più militarizzati nei confronti di chi cerca rifugio in Unione europea.

Lo racconta sul sito d’informazione The Conversation il ricercatore senior di Medici Senza Frontiere Duncan McLean: l’équipe della ong fondata nel 1971 a Parigi è una delle prime a offrire alle persone e alle famiglie che sbarcano a Samos e Lesbo, spesso nascondendosi dalle autorità, un primo soccorso medico e psicologico d’emergenza.

“Gli alti livelli di depressione e di disturbo da stress post-traumatico riflettono sia l’esperienza che li ha portati a intraprendere un viaggio ad alto rischio verso l’Europa, sia la prova del viaggio stesso”, racconta McLean. I sopravvissuti riferiscono di essere stati riportati con la forza nelle acque turche, dicono di aver paura che succeda ancora.

Il pushback, o respingimento illegale, a cui sono sottoposte queste persone è l’insieme delle misure che comportano “il rimpatrio sommario dei migranti, compresi i richiedenti asilo”, senza valutare le loro esigenze di protezione, al punto di attraversamento, sia esso terrestre o marittimo. Lo ha sottolineato il Relatore speciale delle Nazioni Unite sui diritti umani dei migranti Felipe González Morales, che nel rapporto pubblicato a maggio dello scorso anno ha sottolineato che si tratta di una pratica diffusa ed esistente lungo la maggior parte delle rotte migratorie.

Il concetto di pushback, che significa letteralmente “spingere indietro”, non deve essere confuso con il refoulement, o espulsione, che consiste in qualsiasi forma di allontanamento forzato verso un Paese in cui la vita o la libertà del rifugiato sarebbero minacciate.

Se il refoulement è vietato e illegale secondo il diritto internazionale, ai sensi dell’art.33 della Convenzione di Ginevra, il pushback “occupa una zona grigia dal punto di vista giudiziario”, spiega McLean.

È un fatto, spiega il ricercatore, “che i pushbacks avvengano alle frontiere europee”: un recente rapporto pubblicato dall’Olaf, l’organismo di controllo dell’Unione europea, ha evidenziato la complicità di Frontex nel respingimento dei migranti dalla Grecia alla Turchia.

L’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera avrebbe operato sotto il comando delle autorità greche e attivamente coperto i respingimenti da parte della marina, evitando l’area in cui avvenivano o semplicemente non indagando. Ed è un fatto che questo genere di azioni rappresentino “un pericolo estremo per coloro che sono abbastanza disperati da rischiare la traversata verso la Grecia”.

Il termine drift-back, o ritorno alla deriva, si riferisce alla pratica di abbandonare i richiedenti asilo in mare, su zattere senza motore, per far sì che tornino alla deriva su altre coste. Secondo Forensic Architecture, un gruppo multidisciplinare di ricerca che monitora la violazione dei diritti umani ricreando ambiente e circostanze in cui si sono verificati episodi di violenza, circa 28.000 persone sarebbero andate alla deriva nel Mar Egeo da quando è stato documentato il primo caso nel febbraio 2020.

Uno degli episodi divenuti, ormai, di routine in tutto l’Egeo, è stato ricostruito lo scorso anno in un’indagine condotta da Guardian, Lighthouse Reports, Mediapart e Der Spiegel: il caso riguardava due uomini originari di Costa d’Avorio e Camerun, ritrovati morti vicino alla costa turca. “Con cinica efficacia, il governo greco ha presentato la riduzione degli arrivi come un successo, anche se la mortalità è proporzionalmente aumentata”, spiega McLean.

Ma i pushbacks sono solo una delle pratiche esistenti per respingere i migranti in modo illecito: tra gli esempi recenti, per esempio, c’è il presidente bielorusso Alexander Lukashenko “che ha facilitato l’arrivo di richiedenti asilo dal Medio Oriente come ritorsione per le sanzioni dell’Ue”, oppure il Marocco, che nel 2021 avrebbe indirizzato un’ondata di migranti nell’enclave spagnola di Ceuta.

Il Washington Post spiega che la mossa è stata una presunta punizione inflitta alla Spagna per aver fornito cure mediche a un nemico del Marocco, leader del movimento di liberazione saharawi, nel Sahara occidentale.

Nel 2017, gli Stati europei hanno iniziato a finanziare la guardia costiera libica, nonostante le preoccupazioni ben documentate sul trattamento durante le intercettazioni nel Mediterraneo e sulle condizioni della Libia stessa. Il Regno Unito avrebbe voluto “ricollocare” i richiedenti asilo in Ruanda, ma il primo volo previsto per giugno è stato cancellato dopo l’intervento della Corte europea dei diritti dell’uomo

Ma non basta condannare queste pratiche criminali: “Il compito più grande è quello di correggere un sistema difettoso che ha speso milioni di euro per rafforzare la risposta dell’Ue alla migrazione, pagando al tempo stesso gli Stati più poveri per gestire il problema”, tuona McLean. “Laccesso dignitoso a procedure di accoglienza, protezione e asilo sicure è il minimo richiesto dal diritto internazionale”.

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