Diritti

Lettera aperta a Massimo Giannini

L’articolo su La Stampa firmato da “Patrizio Bati” pubblicato il 20 novembre ci risulta incomprensibile, prima ancora che inaccettabile. Chiediamo il perché di questa scelta
Credit: ANSA/ GIORGIO ONORAT
Tempo di lettura 6 min lettura
22 novembre 2022 Aggiornato alle 06:30

Gentile Direttore Giannini,

Sono una delle tante che hanno letto l’articolo uscito il 20 novembre su La Stampa, firmato dallo scrittore Patrizio Bati, e intitolato “Sesso, persiane chiuse, pantofole: le mie ore nella casa di via Riboty”.

L’ho letto, cercando di comprenderne il senso e l’utilità, ma soprattutto cercando di capire in che modo un pezzo del genere possa essere coerente con una politica editoriale orientata a creare un discorso sano e costruttivo intorno alla violenza di genere, posto che il giornale lo voglia costruire.

Nell’articolo, l’autore racconta di avere frequentato la casa-bordello in cui sono morte “Sofia” e “Anna” (fatico a ritrovare i loro nomi nelle cronache di questi giorni: di questo genere di vittime importa davvero poco), due delle tre donne del cui omicidio è accusato Giandavide De Pau, fermato poche ore dopo il ritrovamento. Della vicenda in sé, Patrizio Bati (pseudonimo che a Mondadori, editore di Bati, deve essere sembrato molto arguto: peccato che Bret Easton Ellis non sia proprio un autore di nicchia) dice poco o nulla: molto invece ricama intorno alle sue “almeno venti” frequentazioni dell’appartamento in cui le due ragazze si prostituivano.

Il pezzo sembra ricavato da uno di quei forum in cui i clienti si scambiano informazioni sulle lavoratrici del sesso che frequentano, romanzandole e mettendosi al centro della narrazione. Bati si ferma un attimo prima, ma non molto: il suo racconto parla di donne sfruttate, chiuse dentro case con le persiane abbassate, che non indossano “scarpe con i tacchi” (chissà quante fantasie frustrate) ma pantofole, per non disturbare i vicini. Donne che, cito, “Sono corpi senza identità, coscienti di essere soltanto questo. Schiave di organizzazioni criminali. Bambole riprodotte in serie, tutte con gli occhi a mandorla. Oggetti «Made in China», anche se non sempre si tratta di cinesi”.

A questo punto, alla redazione e alla direzione dovrebbe essere stato chiaro che quell’articolo non rifletteva il punto di vista esterno di un cronista, ma quello di un partecipante attivo allo sfruttamento di donne schiavizzate e razzializzate. Oggetti, appunto, con cui l’autore dice di aver “consumato” dei rapporti sessuali, indifferente alla loro condizione.

È difficile parlare di questi argomenti senza scadere nel moralismo più vieto. Il sex work è una realtà per milioni di donne, e non serve aver letto Virginie Despentes o seguito (nei primi 2000) il blog di Belle De Jour, la ricercatrice che si manteneva lavorando come escort, per capire che la questione è più complessa di come la si vorrebbe dipingere, e che non tutte le donne che si prostituiscono sono sfruttate. Quelle di cui parla l’articolo lo erano: e se il tentativo era quello di parlare di questo sfruttamento con onestà e senza filtri, diciamo che il cenno ai “rigagnoli di sperma” che arriva verso la conclusione rende difficile accettarlo come tale.

Dico “il tentativo”, perché alla terza rilettura ancora non riesco a capire. Questa settimana ricorre la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne: il 26 novembre, il giorno dopo, a Roma si terrà la manifestazione nazionale indetta da Non una di meno, come ogni anno, in cui sfileranno donne ma anche uomini e tutte le persone che si sentono coinvolte nella lotta femminista contro questo fenomeno. Proprio in questa settimana, La Stampa sceglie di uscire con un articolo scritto da un anonimo che sostiene di avere avuto rapporti sessuali coatti con una delle vittime di una strage, rapporti sessuali da lui pagati, più volte. Di lei non dice niente. Forse non è nemmeno sicuro di averli avuti proprio con lei. Sono tutte uguali, le cinesi.

A cosa serve? Cosa volevate dire, cosa volevate dirci? Che la prostituzione esiste non è proprio una novità, né sono particolarmente utili – se non a rivelarli ai prossimi clienti, permettendo loro di aggirarli – i trucchi delle sex worker per prevenire un’aggressione. La violenza viene data per scontata, un’eventualità che al lettore viene chiesto di accettare senza discussioni, come se fosse un fenomeno atmosferico: piove, nevica, grandina, qualcuno aggredirà una prostituta, cosa ci vuoi fare. Non una riga viene spesa per esaminare il proprio ruolo nella continuata schiavizzazione di donne che vivono al buio come talpe, uscendo solo per rifornirsi di cibo. Una vita d’inferno.

Parecchio spazio viene invece dedicato ai sotterfugi dei clienti: “Fidanzati e sposati, la «parentesi prostituta» se la ricavano quasi sempre in un giorno feriale, la mattina prima di andare al lavoro, in pausa pranzo o la sera appena usciti dall’ufficio”.

Anche qui niente di nuovo, sappiamo benissimo che succede. Nel pezzo, però, questo costume viene fatto passare come un “peccato”, qualcosa che si può lavare via con un po’ di bagnoschiuma occultato nello zaino o nella valigetta. Ogni giorno, file di uomini pagano (poco) delle donne prigioniere in un appartamento per fare sesso (spesso a tre, si premura di specificare Bati, come se si trattasse di scegliere dal menu fra la tagliata e il controfiletto). E in tutto questo: tre donne sono morte, una forse lavorava lì. Forse. Forse l’autore l’ha conosciuta. Forse. O forse – il dubbio è legittimo – ha solo bisogno di promuovere il suo romanzo (di autofiction, come la chiamano) sulle scorribande dei giovani pariolini. Quattro colonne su La Stampa sono una bella vetrina. Buttale via.

No, non capisco. Non capisco come sia possibile pubblicare un pezzo del genere, così ambiguo, a tratti così osceno, al confine fra gonzo journalism e finzione di pessimo gusto, su un caso di omicidio. Dalla letteratura ci aspettiamo che sia così: ambigua, oscena, a volte violenta. Se questo articolo fosse stato un capitolo di un libro gli avremmo forse rimproverato di essere un tentativo di imitazione: ma in un libro avrebbe avuto un senso.

La letteratura non deve servire a niente, non deve essere informativa e tantomeno pedagogica. Il giornalismo, invece, ci dovrebbe dare un senso della realtà, informazioni puntuali, un commento su quello che succede nel mondo che sia chiaro negli intenti e nelle modalità. Una funzione che in questo caso è venuta meno, e sarebbe bello sapere perché.

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