Diritti

La sovrappopolazione è un problema. Le disuguaglianze? Di più

La nostra specie ha raggiunto 8 miliardi di individui. Siamo tanti, ma è davvero questo il punto?
Credit: San Fermin Pamplona/ Pexels
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20 novembre 2022 Aggiornato alle 06:30

Siamo 8 miliardi di persone sulla Terra, sette volte la popolazione del 1800. Nel 1920 eravamo circa 2 miliardi, nel 1970 ben 4 e, secondo le stime delle Nazioni Unite, arriveremo a sfiorare i 10 (9.7) nel 2050.

Il numero degli individui attualmente vivi cresce grazie alle innovazioni medico-sanitarie capaci di curare malattie che 200 anni fa erano una sentenza di morte e di allungare considerevolmente la vita umana. Diventiamo vecchi e ci restiamo a lungo, mentre nel mondo nuove vite riescono a sopravvivere alla nascita grazie a quella stessa medicina capace di rimettere in moto cuori stanchi e devastati da fumo, alcol, alimentazione insalubre, vita sedentaria e inquinamento.

La gioia del poter vivere è però soppiantata dalla consapevolezza che più persone respirano ed esistono, maggiore è il nostro impatto come specie sul Pianeta. La critica di chi solleva il problema si alza furiosa e pretende il controllo delle nascite, come imposto per anni in Cina con la One child policy. Una decisione come un’altra secondo molti, che non tengono conto di come una legge del genere si intersecherebbe alle disuguaglianze di sistema.

Basti pensare alla preferenza, sempre cinese, per il figlio maschio, frutto di un patriarcato proprietarista diffuso e incontaminato che attribuisce al maschile una sovranità sul femminile e che ha portato sovente all’uccisione della primogenita. Perché se nel quadro della vita c’è un posto, possiamo star sicuri che verrà riservato a un maschio.

Ma la discriminazione di genere non è la sola a farsi largo e appare assurdo e forse persino illogico che in Italia si parli di controllo delle nascite. Quali sono le nascite la cui prevenzione si invoca? Quelle dei popoli che stanno aumentando, mentre i nostri invecchiano. Al blocco delle nascite devono - secondo il sentire comune - essere sottoposte le popolazioni povere, razzializzate e migranti.

C’è una prolifica disonestà intellettuale che mischia e sfuma quelle che il filosofo statunitense Henry Shue distingue in emissioni di sussistenza e in emissioni di lusso. Può il valore dell’inquinamento da jet privati avere la stessa priorità e lo stesso trattamento delle emissioni prodotte dalle persone che, semplicemente, vivono? Chi si lamenta del fatto che siamo troppi e che questo è effettivamente il problema avvalla questa indelicata distribuzione di colpa.

L’aumento delle popolazioni, soprattutto povere, è certamente un fattore impattante, ma lo è principalmente perché si inserisce in un contesto di degrado ambientale realizzato da anni di estrazione fossile demandata alla costruzione di un fabbisogno consumistico. L’iper-consumo dei ricchi e dei super ricchi del mondo è il reale problema. Il figlio unico della famiglia occidentale accompagnato ogni giorno in macchina a scuola invece che con i mezzi in città servite, ha un impatto maggiore dei sei figli di una provincia agricola del Bangladesh.

Lo stesso figlio unico che viene vestito con ricambi serrati, nutrito con animali e loro derivati, portato a godere delle bellezze del mondo in aereo per cifre ridicole e magari benedetto da un Apple Watch per Natale, per consacrarlo al consumo smodato, ha un valore differente, in termini di emissioni, rispetto ai bambini di una famiglia che non ha auto, riscaldamento o internet.

La diseguaglianza, infatti, non modifica solo l’accesso alle possibilità di sistema, ma cambia drasticamente la quantità di emissioni pro capite producibili.

Quasi il 9% della popolazione mondiale vive sotto la soglia di povertà e pur sapendo che gli indicatori che misurano tale condizione non sono esaustivi, ciò che permane è che per la maggior parte delle persone del mondo l’accesso ai diritti e ai beni ampiamente disponibili nel Nord del Mondo non è possibile.

Il consumo, quello a cui fanno capo tutte le produzioni più impattanti del pianeta, si realizza nelle vite dei Paesi più ricchi, esattamente dagli stessi centri da cui parte la richiesta di impedire alle persone cinesi o indiane di avere figli.

L’inquinamento deriva dalle abitudini degli iper-consumatori, degli stati e delle aziende estratto ed estrattrici.

Il fabbisogno attuale non è derivato da un bisogno reale ma da una cultura dell’uso, spesso venduto sotto l’etichetta di benessere, concentrato nelle mani di pochi, pochissimi gruppi umani. Borghesi e ricchi consumano troppo e con costanza, tant’è che la loro stessa identità di classe di basa sull’uso e sul consumo. Di cose, persone e animali.

L’aumento della popolazione non è un fattore da poco tant’è che diversi studi, come quello condotto da Kimberly Nicholas presso la Lund University, indicano che nelle economie avanzate la scelta di non avere figli è una delle misure più efficaci nella riduzione delle emissioni. Si parla di 120 tonnellate di CO2 in meno.

Il contesto, spesso scardinato dagli ambientalisti a intermittenza, è però quello delle economie avanzate dei Paesi ricchi in cui il tasso di sostituzione demografico cola a picco e il paradosso sta nella tendenza di questi individui a voler incentivare la natalità nazionale mediante pratiche che riducono i diritti delle donne, mentre al contempo chiedono a gran voce lo stop alla natalità all’estero.

Le donne residenti in luoghi con un maggiore welfare di genere, accedendo all’istruzione, al mondo del lavoro, alla pratica abortiva e alla contraccezione, hanno una maggiore capacità di autodeterminazione, che tuttavia sta venendo erosa nel nome del nazionalismo e della paura della cosiddetta sostituzione etnica. Perché se in Italia il numero di nati bianchi diminuisce, in Paesi come la Nigeria il tasso di fertilità è tra i più alti. Ed è questo il motore silenzioso delle assurde richieste mascherate da sensibilità climatica.

Se si pensa al fatto che più del 14.5% delle emissioni GHG derivano dall’allevamento intensivo terrestre, che ogni anno uccide circa 60 miliardi di bestie; che gli animali allevati occupano il 77% delle terre coltivate assorbendo circa l’8% delle risorse idriche globali (acqua verde e blu) e che questa produzione è destinata alle persone, statisticamente, più ricche, appare quasi assurda la richiesta di imporre una limitazione al numero di figli che le persone più povere del mondo possano o non possano avere.

Ciò che deve cambiare, per cercare di mitigare la crisi climatica è il sistema, la concentrazione di ricchezza con annesso consumo deve morire per fare spazio a una nuova generazione. Anche perché è estremamente facile parlare dalla propria poltrona occidentale di controllo della natalità imposta a Paesi come India e Cina, mentre dallo smartphone si progetta la vita dei propri figli tra scuole private, sport una volta a settimana, tre mesi di vacanza da distribuire nelle seconde case, esperienze all’estero per imparare le lingue, feste di compleanno in pizzeria, carne per tutta la vita,con cadenza bisettimanale e derivati idealmente ogni giorno.

Sì, ai ricchi del mondo, e in questa categoria rientriamo tutti noi, piace dare al Sud del mondo predato e sventrato la colpa di tutto, persino della crisi climatica derivata dall’estrazione di fossile necessario a mantenere in piedi il nostro insensato stile di vita e che deve continuare perché noi ne possiamo godere per tutta la durata della nostra lunga esistenza.

Se domani il Sud insorgesse e chiedesse di anticipare la morte di chi ha più di 50 anni per ridurre le emissioni, presteremmo orecchio?

La verità è che le discussioni sui figli erodono i diritti delle donne e distruggono le prospettive di chi già vive e di chi verrà perché spostano l’attenzione dall’impatto dell’industria degli idrocarburi.

Se non siamo disposti a chiudere gli oleodotti che pompano e foraggiano il consumo smodato, se non siamo capaci di chiudere i rubinetti che foraggiano bestie abusate e destinate alla morte, allora perché, perché, abbiamo il coraggio e la tracotanza, di pretendere che le persone del Sud del mondo chiudano il loro accesso al futuro?

Perché per gli iper-consumatori è più facile pensare di dare la colpa alla moltitudine povera e prolifica piuttosto che rinunciare alla bistecca, allo shopping, alla macchina, ai viaggi e alla ricchezza accumulata sui corpi degli altri. Perché è più facile una guerra tra poveri, meglio ancora una guerra ai poveri, che una seria e strenua lotta contro i potenti agglomerati industriali del pianeta. Signori del fossile compresi.

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