Economia

Pensioni: come cambieranno nel 2023?

Il Ministro dell’Economia ha firmato il decreto che fissa la percentuale di adeguamento al 7,3%. Per capire le conseguenze di questa rivalutazione, una piccola guida su come funziona il sistema pensionistico italiano
Credit: micheile dot com/unsplash
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14 novembre 2022 Aggiornato alle 09:00

In vista del decreto firmato dal Ministro dell’Economia, che fissa la percentuale di rivalutazione da applicare in via provvisoria dal prossimo anno alle pensioni con aumenti del 7,3% al lordo, rivediamo le basi del sistema pensionistico italiano.

Innanzitutto alla pensione di vecchiaia possono accedere tutti i lavoratori con almeno 67 anni di età e 20 anni di contributi versati. Il nostro sistema pensionistico è strutturato secondo il criterio della ripartizione, quindi i contributi versati dai lavoratori e dalle imprese agli enti di previdenza sono destinati al pagamento delle pensioni di coloro che hanno già cessato la loro attività lavorativa.

È prevista una rivisitazione dell’attuale Quota 102, introducendo il vincolo dei 41 anni di contributi, e che porterebbe il costo di questo intervento sopra al miliardo di euro per il primo anno e ancora più in alto a partire dal terzo.

La soluzione meno costosa, mantenendo il requisito dei 41 anni di contribuzione, sarebbe quella di Quota 104, con 63 anni d’età, invece che 61. Anche la Quota 103 potrebbe essere una soluzione, raggiungibile a 62 anni d’età con 41 di versamenti e la sua variante in versione parzialmente flessibile, partendo da un’età minima di 61 anni.

Un’altra ipotesi vagliata nelle ultime settimane comprenderebbe una “doppia Quota 102”, che permetterebbe di uscire con 64 anni d’età e 38 di contributi, o con 61 anni d’età e 41 di contribuzione. Per far fronte al pagamento di pensioni future non è previsto alcun accumulo di riserve e per questo il flusso delle entrate, rappresentato dai contributi, deve essere in equilibrio con l’ammontare delle uscite, rappresentate delle pensioni pagate. Nel corso degli ultimi 30 anni, il sistema previdenziale italiano è stato interessato da riforme strutturali finalizzate soprattutto al controllo della spesa pubblica, all’istituzione di un sistema di previdenza complementare e all’introduzione di alcuni elementi di flessibilità in uscita dal mercato del lavoro.

Il contributo annuo che i lavoratori dipendenti e autonomi devono versare agli enti di previdenza di natura obbligatoria per il finanziamento delle pensioni di vecchiaia, di invalidità e dei superstiti è chiamato aliquota contributiva Ivs e si tratta della più pesante aliquota contributiva prevista dall’ordinamento italiano. Questa aliquota equivale al 33% della retribuzione annua lorda e viene pagata per il 9,19% dei lavoratori dipendenti e per il restante 23,81% dal datore di lavoro. Questa aliquota contributiva è la più alta tra tutti i 34 paesi membri dell’Ocse, dove in media è al 18,2%.

Per far sì che il nostro sistema pensionistico sia sostenibile, è necessario un equilibrio tra l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro e le uscite dallo stesso da parte di pensionati, invalidi e inabili. Proprio per questo, uno dei principali problemi che l’Italia ha è di matrice demografica e riguarda il progressivo invecchiamento della popolazione. Le persone over 65 continuano ad aumentare, rappresentando circa il 24% del totale secondo l’Istat, mentre il tasso di natalità continua a scendere arrivando a -14,5% rispetto al 2021.

Come conseguenza del fatto che i giovani che lavoreranno e pagheranno le pensioni agli anziani sono destinati a diminuire, secondo le stime dell’Inps la generazione nata tra il 1965 e il 1980 potrebbe arrivare ad ambire a una pensione media di 750 euro. Questo calcolo si riferisce a un caso specifico, e molto comune, di persone con un salario di 9 euro l’ora, contributi versati per 30 anni e pensionamento a 65 anni d’eta.

La cosiddetta generazione X è destinata ad avere delle pensioni più basse per via della crisi occupazionale e degli stipendi medi. Queste stime arrivano in seguito a una mancata crescita dei salari e delle occupazioni stabili negli ultimi vent’anni, e anche il rapporto Ocse sulla retribuzione europea conferma questo problema, ponendo l’Italia al penultimo posto nella classifica dei Paesi dell’Eurozona con le retribuzioni più basse d’Europa, in particolare per le donne e per i giovani.

Al momento, in Italia il 32% dei pensionati già percepisce meno di 1.000 euro al mese. Al contempo, un terzo dei lavoratori guadagna meno di 1.000 euro al mese, senza contare che il 23% dei contratti di lavoro sono a termine.

E come impatterà il prossimo adeguamento per le pensioni in pagamento da gennaio 2023? Il minimo pensionistico, per esempio, salirà da 525,38 a 563,73 euro, con un aumento di 38,35 euro mensili, ovvero di 498 euro in un anno. Questo è quello che prevede il decreto firmato dal Ministro dell’economia, Giancarlo Giorgetti. In futuro, senza un intervento dello Stato su dinamiche lungo termine come quelle del sistema pensionistico, per i giovani d’oggi lo scenario potrebbe essere ancora più drammatico di quello stimato dall’Inps.

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