Ambiente

Soldi e ancora soldi per la crisi climatica. Ma tutti piangono miseria

Uno degli obiettivi dei negoziati della Cop27 è movimentare 100 miliardi di dollari l’anno fino al 2030 per supportare i Paesi più colpiti dal climate change. Nonostante il target sia nato nel lontano 2009, nemmeno in Egitto si raggiungerà la cifra definita
Credit: EPA/RADEK PIETRUSZKA POLAND OUT
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11 novembre 2022 Aggiornato alle 06:30

Soldi, soldi, soldi.

Servono risorse per attualizzare l’Accordo di Parigi e sostenere sia lo sforzo di decarbonizzazione degli Stati industrializzati che quello di mitigazione, adattamento e compensazione delle nazioni meno industrializzati, storicamente non responsabili delle emissioni di gas serra (l’Africa complessivamente ha contributo dall’epoca pre-industriale a meno del 2% delle emissioni). Molte risorse.

Uno degli obiettivi chiave dei negoziati Onu che fino al 18 novembre avranno luogo all’interno della Cop27 di Sharm-el-Sheik in Egitto è quello di movimentare 100 miliardi di dollari l’anno almeno fino al 2025.

Il target è nato nel 2009, annunciato dall’allora segretario americano Stato Hillary Clinton. Si sarebbe dovuto raggiungere nel 2020 per Cop26, posticipata di un anno causa Covid. Ma nemmeno questo ritardo è servito per movimentare i 100 miliardi lo scorso anno a Glasgow. E purtroppo nemmeno in Egitto si raggiungerà la cifra definita. Obiettivo rimandato a Cop28 il prossimo anno in Arabia Saudita. Al momento la cifra sborsata annualmente dai Paesi più ricchi si assesta appena sopra gli 80 miliardi.

Chi fa bene è soprattutto l’Europa (Italia inclusa), che paga anche più di quanto competerebbe data la responsabilità storica delle emissioni. Male invece, secondo i calcoli fatti da Carbon Brief, Stati Uniti, Canada, Australia, e Regno Unito. Dei 100 miliardi di dollari l’anno gli Usa dovrebbero sborsare circa 40 miliardi di dollari l’anno, ma nel 2020 ne hanno stanziati solo 7,6 miliardi, circa il 19% di quanto la responsabilità storica imporrebbe.

Biden ne dovrebbe sborsare altri 32,4 miliardi se volesse rispettare il concetto di giustizia climatica. Ogni anno almeno fino alla fine del suo mandato.

Stando sempre alle stime di Carbon Brief fanno male anche Canada di Justin Trudeau: tirano fuori dal portafoglio il 37% di quanto dovrebbe pagare (2 miliardi contro 5,5); l’Australia pure tira fuori il 38% del dovuto (1,2 mld rispetto ai tre che dovrebbe versare). Solo la Gran Bretagna si avvicina a quanto dovrebbe versare, circa il 75%.

John Kerry, l’inviato speciale clima Usa, dovrebbe chiaramente rispondere a queste mancanze, così come il resto del mondo anglosassone sempre più irrispettoso dei doveri internazionali che gli spettano. E l’India a Cop27 fa la voce grossa: serve un nuovo obiettivo per incrementare la finanza climatica oltre i 100 miliardi entro il 2024.

Ci possiamo attendere nuovi pledge nella seconda settimana di negoziati?

Va male anche sull’adattamento: nel piatto vanno messi almeno 40 miliardi l’anno l’adattamento entro il 2025, impiegando un sistema di accounting trasparente per rendere concreti i pledge delle nazioni donatrici. Ma ci si ferma a poco più di 20 miliardi. Eppure sono risorse importanti poiché l’implementazione delle politiche di adattamento servono per contenere le perdite e danni legati alla crisi climati. Più si spende in adattamento meno si dovrà finanziare il meccanismo di Loss&Damage.

Che cosa è poi questo Loss&Damage di cui tutti ne parlano e che i lettori de La Svolta hanno imparato a conoscere? È il meccanismo sui danni e le perdite a cui tutti i Paesi più vulnerabili guardano con speranza. Stati insulari, Least Developed Countries, Paesi della fascia subsahariana e corno d’Africa, Paesi costieri del sud-est asiatico aspettano da anni uno strumento che li compensi dei disastri portati dal climate change, causato principalmente dai grandi paesi industrializzati.

Per attuare questo servirebbe creare una facility finalizzata a compensare i Paesi più vulnerabili dei danni e le perdite subite a causa del clima – come il Pakistan colpito in settembre da inondazioni fuori scala – con il sostegno dei paesi industrializzati. Per l’attuazione servono però centinaia se non migliaia di miliardi di euro per attuare tutte le compensazioni. E nel mondo occidentale è panico.

Basta vedere gli annunci fatti da alcune nazioni per finanziare il Loss&Damage per capire che il denaro non c’è. Il Canada ha annunciato 24 milioni di dollari di nuova finanza climatica di cui una parte per L&D. 10 milioni sono stati annunciati dall’Irlanda, 20 dall’Austria, altri 20 dalla Nuova Zelanda, 5 dalla scozia, e 13 milioni (di sterline) dalla Gran Bretagna. Italia non pervenuta al momento. Ma stiamo parlando di milioni, quando i Paesi colpiti chiedono miliardi.

L’Europa cerca di fare la sua parte, ma l’esborso è particolarmente oneroso (per usare un eufemismo) e arriva in un momento non certo semplice per i paesi industrializzati.

Secondo il Gruppo indipendente di esperti di alto livello sui finanziamenti per il clima entro il 2030 saranno necessari mille miliardi di dollari all’anno di finanziamenti esterni per i mercati emergenti e i Paesi in via di sviluppo, Cina esclusa.

Per l’adattamento si stima che il fabbisogno annuale raggiunga i 160-340 miliardi di dollari entro il 2030 e i 315-565 miliardi di dollari entro il 2050, mentre i costi per affrontare le perdite e i danni, Loss&Damage sono stimati a mille miliardi di dollari entro il 2050.

Come movimentare dunque questa montagna di soldi? Non basta mettere mano ai bilanci di stato, aumentare la spesa per la cooperazione e creare nuove politiche di finanziamento per lo sviluppo legati al clima.

Uno dei ruoli chiave lo ricoprono le Banche multilaterali di sviluppo (Mdb), come l’Asian Development Bank o la Banca Mondiale.

Se si guarda alle dieci più importanti banche di sviluppo si sta cercando di allineare i flussi finanziari all’Accordo di Parigi. Ma come ricorda anche il think tank Ecco, “sulla buona strada non significa granché”.

In particolare, fa notare il portavoce di Ecco, “non sono inclusi piani per l’eliminazione graduale dei finanziamenti ai combustibili fossili, né è stato fatto alcun riferimento all’allineamento con 1,5 C”.

Se si vogliono ottenere veri risultati, visto che tutti piangono sempre che alle Cop non si fa nulla, serve mettere una pressione senza precedenti su queste istituzioni, decarbonizzando completamente i propri piani di investimento infrastrutturali, legandoli a obiettivi climatici, nel pieno rispetto dei diritti umani (evitando di nelle distorsioni degli orribili Sap, i Structural adjustment plan degli anni Novanta realizzati dal Fondo monetario internazionale).

In congiunzione bisogna spingere sugli investimenti del settore privato che dovrebbero trovare agevolazioni fiscali o altri meccanismi di remunerazione per chi investe attraverso meccanismi di matching con fondi pubblici o investimenti multilaterali.

Esiste però la preoccupazione che la finanza privata, e in particolare quella generata dalle compensazioni di carbonio, venga presentata come la soluzione principale per finanziare la transizione energetica e per sostenere i Paesi in via di sviluppo a rispondere agli impatti climatici. La priorità dovrebbe essere la mobilitazione di maggiori finanziamenti reali, compresa la riforma del Capital adequacy framework per le Mdb, che potrebbe mobilitare mille miliardi di finanziamenti agevolati.

Fondamentali anche nuove iniziative fiscali, dalla global carbon tax, alla frequent flyer tax passando per nuovi meccanismi di raccolta fiscale finalizzata alla creazione di pool di denaro per adattamento e il meccanismo sulle perdite e i danni.

Mai come oggi il mondo economico è chiamato a generare nuova finanza per il clima. Le buone idee non mancano, si inizi a metterle a terra all’interno dei meccanismi Onu.

Intanto si prende atto che l’Italia cerca di fare la sua parte. Il nuovo fondo italiano per il clima presentato a Cop27 prevede di erogare 840 milioni l’anno dal 2022 al 2026 per finanziare interventi, anche a fondo perduto, a favore di soggetti privati e pubblici per contribuire al raggiungimento degli obiettivi stabiliti negli accordi internazionali in materia di clima e tutela ambientale ai quali l’Italia ha aderito.

Cassa Depositi e Prestiti (Cdp) è stata nominata per legge gestore del Fondo Italiano per il Clima. Cdp può anche fungere da co-finanziatore con risorse proprie su iniziative specifiche. La cosa interessante del fondo rotativo? La dotazione che può essere incrementata attraverso contributi finanziari di soggetti terzi pubblici o privati, nazionali o internazionali.

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