Culture

Il Mito della Bellezza, 30 anni dopo

Torna in libreria per Tlon Edizioni un classico della letteratura femminista degli anni ‘90, che insegna a vedere il lato oscuro dell’ossessione per l’immagine. Vale la pena rileggerlo oggi?

Pensaci: quante volte al giorno, ogni giorno, ti preoccupi del tuo aspetto? Quante volte ti specchi in una vetrina per controllare i capelli, o il trucco? Quante volte sistemi gli abiti o ti ritrovi a pensare che siano inadatti, sbagliati, per il contesto in cui sei? Quanto tempo, ed energie, spendi quotidianamente in quel “monitoraggio del corpo” che ci porta a essere dolorosamente consapevoli non solo della nostra presenza corporea, ma soprattutto, della sua inadeguatezza?

Non preoccuparti, non devi dircelo, conosciamo già la risposta a queste domande. Ed è “tanto, troppo”. Come facciamo a conoscerla? Semplice, perché è quello che ogni donna sperimenta ogni giorno. E non per caso. Quello che ti succede non è un fatto individuale, ma culturale e sociale. Un fenomeno che, spiega Naomi Wolf nel suo classico del 1990 Il mito della bellezza – da poco tornato in libreria grazie a Tlon Edizioni (21€, 488 pagine) – non è frutto di una pressione interiore ma il risultato di una “cospirazione culturale”, finalizzata a mantenere intatta la struttura patriarcale della società.

Un libro ancora attuale?

Sono passati più di 30 anni e per molti aspetti la società si è trasformata, ma quello che non è cambiata è l’onnipresenza pervasiva che il mito della bellezza ha sulle nostre vite. Una presa che, piuttosto che affievolirsi, si è estesa anche a molti uomini; significativamente, soprattutto a quelli appartenenti a minoranze discriminate, primi tra tutti i giovani maschi omosessuali, per cui il culto del corpo e dell’estetica – celebrato anche dalle app di dating – sembra essere più che un semplice vezzo estetico, quanto piuttosto una necessità per rivendicare la propria legittimità.

Per questo, come ricordando anche le curatrici Mara Gancitano e Jennifer Guerra nella prefazione, il libro di Wolf rimane di straordinaria attualità: perché nonostante “posizioni che oggi giudichiamo problematiche, oppure per le quali aveva a disposizione dei dati parziali, Il mito della bellezza ha scatenato delle questioni che continuano a interrogare in modo feroce la nostra società”.

La bellezza è soggettiva. O no?

Lavoro, sesso, religione, cultura, fame e persino la violenza: non esiste ambito in cui il mito della bellezza – che Wolf definisce la “nuova mistica della femminilità” – non riesca a proiettare la sua ombra. Le donne sono mantenute soggiogate attraverso un “mito” che postula obiettivi irrealistici per loro e i loro corpi, e che serve a “mantenere una gerarchia di potere, a separare ruoli, a contenere desideri”. L’ideologia della bellezza non è un fenomeno casuale, ma un elemento necessario per la sopravvivenza della struttura del potere.

La necessità di essere belle sul mondo del lavoro, l’insistenza sull’espiazione del “peccato” di bruttezza attraverso la cura di sé, l’escalation della chirurgia estetica, il culto della dieta e dei corpi che si fanno sempre più piccoli per occupare meno spazio: non c’è niente di “naturale” o biologico nella bellezza – o in quello che la società ha individuato come tale – che non è immutabile. Nemmeno il sesso è l’aspetto prevalente di questo mito, che è prima di tutto politico e che, soprattutto, “non riguarda affatto le donne. Riguarda gli uomini, e il potere”.

“A ogni azione femminista corrisponde una uguale e opposta reazione del mito della bellezza”

Non è un caso che il mito della bellezza sia nato dopo la terza ondata del femminismo, dice Wolf: era necessario addomesticare di nuovo le donne, creando “nuove catene”, rispondere all’ingresso delle donne nella forza lavoro creando un “terzo turno” oltre al lavoro produttivo e quello di cura per mantenerle distratte, impegnate, “vulnerabili all’approvazione esterna” e “costrette a mettere allo scoperto quella caratteristica vitale e sensibile che è l’autostima”.

«I trionfi delle ideologie della “bellezza” negli anni Ottanta sono frutto di un autentico timore, da parte delle istituzioni centrali della nostra società, per quello che potrebbe accadere se delle donne libere facessero dei liberi progressi in organismi liberi attraverso un sistema che si definisce meritocratico».

Libere di (non) scegliere

L’ossessione per il corpo, il peso, l’aspetto non è una caratteristica innata del genere femminile. Non è nemmeno qualcosa che decidiamo liberamente di fare perché amiamo prenderci cura di noi stesse, come amiamo ripetere e ripeterci per rispondere alle accuse di chi cerca di mostrare la pervasività tossica del culto dell’immagine: pensiamo all’insistenza sulla depilazione, sulla necessità di essere sempre curate e alle accuse a chi non lo sarebbe abbastanza, come mostra il caso della giornalista Giovanna Botteri, professionista attaccata per il suo look “trasandato”.

“Il vero problema - spiega Wolf nel capitolo Al di là del mito della bellezza - non ha nulla a che fare con il fatto che le donne si truccano o meno, aumentano di peso o lo perdono, si sottopongono a un intervento chirurgico o lo evitano, si vestono bene o male, trasformano i vestiti, i volti e i corpi in opere d’arte o ignorano del tutto gli ornamenti. Il vero problema è la nostra mancanza di scelta”.

Rileggere Il Mito della Bellezza oggi

Un libro rivoluzionario al momento della sua pubblicazione, The Beauty Myth ha innegabilmente trasformato il modo in cui le femministe – e non solo – approcciano l’idea della “bellezza” e i modi in cui influisce su tutti noi. I limiti rimangono, a trent’anni di distanza, e nuovi ne emergono inevitabilmente: dalla scarsa attendibilità di alcuni dati, in particolare le statistiche relative all’anoressia nel capitolo Fame, passando per un parallelismo superficiale – ma indubbiamente efficace – tra religioni e nuovo culto della bellezza e tra pregiudizi estetici e razziali, sono diversi i punti critici di questo saggio.

Se è vero che non tutte le affermazioni di Wolf hanno resistito alla prova del tempo (e dei fatti), però, il suo libro rimane radicale, coraggioso, stimolante e divertente. E merita di essere letto, o riletto. In fondo, per citare Jennifer Guerra, “la cosa interessante è che se questo libro non descrive del tutto la situazione attuale, è anche per suo merito”.

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