Ambiente

Climate change: non tutti hanno una scialuppa di salvataggio

Nel suo articolo, The Economist invita al realismo, all’idea di una Terra - quasi - inabitabile, proponendo l’adattamento come unica soluzione. E i Paesi che non hanno i mezzi per “abbandonare la nave”?
Credit: Laurentiu Morariu/unsplash
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6 novembre 2022 Aggiornato alle 06:30

L’edizione del 5 novembre arriva in anteprima sull’app, in copertina una Terra su sfondo giallo trafitta da una freccia su cui riposa una mela, il titolo del pezzo di punta: Addio 1.5°C.

Il pezzo insegue e recrimina l’inazione governativa in maniera quasi distratta, forse addirittura assente, proponendo invece soluzioni, liberiste e sfrontatamente marginalizzanti capace di avvantaggiare proprio quei governi. Per cominciare, la sgridata paternalistica agli attivisti che pretendono lo stop alle emissioni si fa eco da sola mentre la penna procede sostenendo che l’obiettivo di limitare l’aumento di temperatura a 1.5 gradi rispetto ai livelli preindustriali non è un traguardo realistico e che, perciò, bisogna abbassare la soglia ambita.

In un concerto di rifiuto mediatico verso l’attivismo vero e collettivo, la parabola liberista del potere che sa cosa è meglio per tutti, razionalmente e tasso di interessi alla mano, non tarda a farsi sentire. Come se la massa già non sapesse quali obiettivi sono possibili e quali no, dati i report Ipcc.

Il pezzo procede sulla falsariga di una strillettera, spiegando che al fossile non rinunceremo tanto presto e che i governi dei Paesi più poveri dovranno “collaborare con il mondo ricco per mobilitare gli investimenti privati. Da parte dei Paesi in via di sviluppo, ciò comporterà grandi miglioramenti nel clima degli investimenti e l’accettazione del fatto che dovranno cedere un certo controllo sulla politica energetica”.

In parole povere, i Paesi del Sud del mondo dovranno cedere parte della sovranità statale e liberalizzare il liberalizzabile, principalmente per quanto riguarda le energie. Le energie rinnovabili.

Insomma, le nuove proposte seguono il percorso dei vecchi meccanismi di indebitamento e svuotamento tipici del periodo post-bellico, gli stessi che con i prestiti del Fmi - Fondo Monetario Internazionale hanno eroso gli Stati sociali in tutto il continente Africano, tranciando istruzione e sanità.

Il pezzo invita a ridimensionare le proposte, accettando la presenza del fossile, in vista di Cop 27 che si tiene a Sharm el-Sheikh, e a pensare alla costruzione di strutture e meccanismi di adattamento. Inutile dire - ripetere - il costo esorbitantemente che avrebbe tale adattamento e quanto questo costo sia sostenibile solo da alcuni Paesi o gruppi di Paesi, non solo in termini economici ma anche manutentivi e relativi al know how necessario alla costruzione e alla gestione di tali strutture. Un know how così fortemente concentrato, prodotto da secoli di distribuzione iniqua dell’istruzione e delle tecnologie che, casualmente, sono localizzate negli Stati che hanno appena cominciato a sentire le prime lingue calde di crisi climatica.

Tra le righe, The Economist sta avanzando l’unica intenzione coerente con tutta l’inazione di chi siamo stati testimoni, senza però sporcarsi le mani e dirlo direttamente: tutelare i Paesi ricchi.

Figlio della mentalità liberista, il settimanale inglese ci propina l’assenza di provvedimenti globali ed equi come unica soluzione plausibile. Attenzione, non spiega perché temi redistributivi e una rivoluzione sostenibile globale siano impossibili - perché non lo sono - piuttosto si limita a ergersi sul podio del calcolo razionale con una serie di fallacie argomentative atte a nascondere l’irrazionalità stessa del concetto, ovvero che si tratta di una tesi a conclusioni già determinate.

Le premesse di questo ragionamento parlano per un Occidente ricco e saturo, che non ha intenzione di condividere ma che userà tutto ciò che possiede per sopravvivere. Di razionale c’è ben poco: si tratta dell’ennesima azione di preservazione del sistema - un realismo disarmante - derivata da una mistura preoccupante di potere e paura.

Il potere, come sosteneva Hegel, somiglia ai processi digestivi, che dal consumo passano per l’assimilazione e l’assorbimento di chi o di ciò su cui si esercita tale potere. I Paesi del Sud del mondo, consumati, sono integrati nei processi di produzione e schiavitù che consentono l’iper-consumo da cui derivano i super capitali. L’occidente satollo, a tutto questo non vuole rinunciare, ma inizia a capire che qualcosa non torna. Perciò, risponde alla paura con la chiusura, la muratura fisica a qualsiasi opzione che cambi il reale stato delle cose.

L’ingiustizia climatica non può essere la soluzione a un problema nato da un sistema diseguale. Il rapporto Groundswell della Banca Mondiale non solo prevede che il cambiamento climatico innescherà un aumento nei volumi della migrazione, forzando circa 216 milioni di individui a lasciare la propria casa, ma specifica che investire nell’energia verde, nello sviluppo inclusivo e resiliente e ridurre drasticamente le emissioni ridurrebbero tali volumi dell’80%.

Anche le prospettive esaminate dallInstitute for Economics and Peace specificano che, entro il 2050, i rischi ecologici derivati dalla crisi climatica (e quindi dai fattori che l’hanno innescata e la mantengono tuttora) incontreranno circa 1.2 miliardi di persone localizzare in 31 Paesi non attrezzati a fronteggiare la crisi.

Perciò, a voler essere realisti e ascoltare i dati, sarebbe opportuno costruire un nuovo dispositivo internazionale di tutela della migrazione, interna ed esterna, e al contempo incentivare la redistribuzione di tecnologie verdi e brevetti senza cascare nella solita esclusione di chi non ha abbastanza denaro per potervi accedere.

La retorica sposata da questo articolo trasforma le richieste di diritto in pretese irragionevoli, rincorrendo una delegittimazione che si fa largo quotidianamente nelle conversazioni di chi ancora ha la possibilità di disquisire sul clima e non ha la necessità di sfuggirvi. Più che un singolo punto di vista, siamo di fronte al potenziale inizio di un cambio di paradigma, un ritorno all’istituzionale ognuno per sé di qualche anno fa farcito da finti aiuti che si risolveranno, probabilmente, in contratti di dislocazione ed estrazione di risorse.

Infine, l’articolo chiosa con una chiamata alla geoingegneria, ammettendone i rischi ma suggerendo che anche la crisi climatica è pericolosa. Ilare quanto spaventoso constatare che chi ha i mezzi per influenzare il mondo preferisca pratiche di blocco dei raggi solari piuttosto che osare immaginare un mondo senza estrazione fossile, produzione di massa e disuguaglianza. Ché di ritrovarci a scegliere se abitare una versione meno fantascientifica di Snowpiercer o una meno distante di Mad Max non è esattamente ciò che vorremmo, pur avviandoci a passo di marcia verso un realistico remake di The Road.

Se la risposta definitiva dei governi al cambiamento climatico sarà un metaforico muro, se davvero stanno iniziando a tirare i remi in barca lasciando indietro tuttə ə altrə, allora è compito della società civile - quella che protesta, fa presidi, blocca strade e s’indigna - spingere per una rivoluzione reale.

Forse, quello che gli analisti hanno mancato di comprendere è che desideriamo un nuovo inizio, un nuovo futuro.

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