Diritti

Il volto nascosto del delivery

I rider lavorano attraverso piattaforme digitali e vengono retribuiti in base al servizio svolto. L’idea è che questa attività sia solo per gli studenti o per chi è alla ricerca di un “extra”. La realtà, però, è ben diversa
Credit: Mika Baumeister/unsplash
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5 novembre 2022 Aggiornato alle 13:00

Dopo una lotta durata quasi 5 anni, a marzo dello scorso anno uno dei muri del mondo delle consegne a domicilio è crollato: i rider che lavorano per Just Eat sono finalmente diventati lavoratori dipendenti e ottenuto il contratto della logistica.

«Più diritti e più doveri per i rider», ha spiegato al Corriere della Sera Daniele Contini, country manager Italia di Just Eat, commentando l’accordo raggiunto con i sindacati più di un anno e mezzo fa.

Ed ecco che gli addetti alle consegne si sono trasformati in lavoratori subordinati, con diritto a malattia, ferie, straordinari, Tfr e paga oraria sulla base del contratto nazionale della logistica. Niente di straordinario, insomma. Solo normalissimi diritti che fino a quel momento erano stati loro negati. Sì perché prima del grande sciopero del 26 marzo 2021 i rider erano pagati a cottimo. E che importava - a chi importava - se in una serata di 5 ore di lavoro si riuscivano a fare poche consegne a causa dei ritardi dei ristoranti o se bisognava attraversare la città per raggiungere i clienti?

Brevemente, nel mondo del delivery i lavoratori sono sottoposti a un modello padronale, spesso isolati l’uno dall’altro, controllati da una piattaforma digitale e, come accennato, retribuiti esclusivamente sulla base del lavoro svolto.

L’azienda fornisce un’app per smartphone attraverso cui il lavoratore viene chiamato quando serve, e un complesso algoritmo decide chi chiamare e chi no, creando una graduatoria che si basa su fedeltà e affidabilità, in base alle recensioni del cliente. Insomma, o sei disposto a rispondere sempre e comunque, a qualsiasi ora, e allora scali la classifica, altrimenti perdi posizioni.

Alla base di questo modello risiede l’idea che i rider siano studenti o lavoratori che cercano un extra; tuttavia, la realtà è ben diversa. Secondo alcuni dati recenti dati dell’InapIstituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche – i cosiddetti platform-worker in Italia sarebbero oltre 570.000, di cui oltre il 36% addetti a consegna pasti a domicilio e molti di loro vivono di questo impiego.

Una situazione che ha iniziato a far discutere seriamente a partire da marzo 2021, quando i rider di tutta Italia si sono fermati per rivendicare a una voce sola il diritto a un contratto vero e proprio: «Un risultato politico e contrattuale significativo», aveva commentato all’epoca Maurilio Pirone, esponente di Rider per i diritti e Riders Union Bologna. Un ottimo risultato, certo. Tuttavia, come osserva Contini, «il quadro normativo italiano non è ancora chiaro».

Mentre in Spagna, per esempio, il rider è inquadrato per legge come lavoratore subordinato, nel nostro Paese Just Eat, unica azienda del food delivery che ha messo a contratto i suoi dipendenti, si trova a concorrere con chi ha costi inferiori.

In quest’ottica, secondo il country manager, l’intervento legislativo è ormai una necessità in un settore che in Italia ha un valore di 1,5 miliardi di euro ed è in crescita costante, così come in crescita sono le aspettative dei clienti. «In questo senso, sono necessarie maggiori tutele per i lavoratori che garantiscono anche un servizio di qualità superiore», commenta Contini.

Ad oggi, nel nostro Paese l’azienda di delivery fornisce una copertura con il suo servizio in oltre 2.000 città italiane, raggiungendo quasi l’80% della popolazione e con 3 milioni di clienti diversi che hanno effettuato almeno un ordine nell’ultimo anno.

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