Ambiente

Cop15: a Montréal si celebra la biodiversità

È la Conferenza delle Parti della Convenzione Onu sulla Diversità Biologica, e si terrà dal 7 al 19 dicembre. Ne uscirà il Quadro globale per la biodiversità post-2020. Cos’è?
Il primo ministro canadese Justin Trudeau durante il conto alla rovescia per la Cop15 a margine dell'assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, il 20 settembre 2022.
Il primo ministro canadese Justin Trudeau durante il conto alla rovescia per la Cop15 a margine dell'assemblea generale delle Nazioni Unite a New York, il 20 settembre 2022. Credit: Sean Kilpatrick/The Canadian Press via ZUMA Press
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31 ottobre 2022 Aggiornato alle 17:00

In un’epoca in cui il veloce evolversi delle abitudini dà periodicamente vita a nuove parole, ve n’è una che è tuttora oggetto di dibattito e, soprattutto, è ancora sconosciuta ai più. Eppure, in lei è racchiuso il mistero della vita sul Pianeta. Si tratta della biodiversità, termine tanto importante quanto sottovalutato e che identifica sia la varietà degli organismi che vivono sulla Terra sia la pluralità in cui questa si esprime: dai geni, alle specie e agli ecosistemi.

Ma la biodiversità è anche la biblioteca della vita e, tra i suoi scaffali, possiamo trovare manuali sulla storia dell’evoluzione, l’arte dell’adattamento, la geografia, la fisica, la chimica, la musica, la medicina e l’ingegneria. Ciascuna dell’indefinito numero di specie che coesistono con noi, infatti, ci racconta da dove veniamo e ci fornisce una serie di beni e servizi, a titolo gratuito, che ogni giorno ci consentono di sopravvivere.

A ben vedere, un esercizio che dovremmo imparare a fare tutti è quello di guardarci intorno, ogni giorno, e provare ad associare le nostre azioni e gli oggetti che utilizziamo, alle specie che ne consentono l’esistenza. Scopriremmo così che il dispositivo da cui leggiamo un articolo, le penne con cui prendiamo appunti, i vestiti, l’acqua che beviamo e persino i mobili delle nostre case sono in qualche modo collegati alla biodiversità: o perché questa ci fornisce le materie prime per costruirli o perché dalla natura prendiamo spunto per dare loro vita.

Un esercizio che ha anche un nome, biomimesi, ossia imitare quello che c’è in natura per creare oggetti, strategie e strumenti a nostro uso e consumo. Un esempio, tra tanti, arriva dalle lucciole, un insetto noto per la sua capacità di illuminarsi (bioluminescenza) e la cui conformazione dell’addome sta suggerendo nuovi metodi per creare led ad alta efficienza.

Ma la biodiversità è anche un serbatoio di risorse genetiche e socio-economiche. In tutto il mondo sono 35.000 le specie vegetali usate per scopo medico, una cifra che rappresenta solo il 15% di quelle esistenti stimate e che, secondo la World Health Organization, sono l’opzione terapeutica principale - ma non esaustiva - per circa 4 miliardi di persone. Dagli anni Ottanta in poi, più di metà dei medicinali approvati dall’americana Federal Drugs Administration (Fda) hanno trovato origine da organismi marini come molluschi, spugne, briozoi e funghi. Secondo la Commissione europea, inoltre, quasi 15 miliardi di euro della produzione agricola annuale comunitaria sono direttamente attribuibili all’impollinazione degli insetti, organismi che forniscono quindi un valido aiuto nel garantire il cibo alla popolazione mondiale.

Ma c’è un’altra ragione che dovrebbe spingerci a comprendere la biodiversità e a proteggerla dal baratro verso cui la stiamo gettando con le nostre attività, ed è ironicamente forse la più importante e al contempo la più ignorata: noi esseri umani siamo natura.

Da quando 300.000 anni fa, noi Homo sapiens abbiamo mosso i primi passi sul Pianeta, abbiamo modificato circa tre quarti delle terre emerse e spinto 1 milione di specie animali e vegetali sull’orlo dell’estinzione. Un triste primato raggiunto sfruttando senza sosta gli organismi di cui avevamo bisogno, influenzando il clima, inquinando ogni luogo del Pianeta - dagli abissi alle cime montuose più elevate - modificando gli ecosistemi e portando via, giorno dopo giorno, un pezzetto di natura alle altre specie che coesistono con noi. Una serie di azioni le cui conseguenze non ci lasceranno indenni e che, anzi, possono essere visti come una vera e propria guerra allo specchio.

Ecco perché la Conferenza delle Parti della Convenzione delle Nazioni Unite sulla Diversità Biologica (Cbd) e dei suoi 2 protocolli sussidiari - ovvero il Protocollo di Cartagena e il Protocollo di Nagoya - meglio nota come Cop15, che si terrà tra poco meno di 2 mesi a Montréal (Canada), dovrebbe essere vista come un incontro cruciale da cui dipende il futuro della vita sul Pianeta così come noi lo conosciamo. Eppure, oggi la Conferenza viene quasi ignorata sia dai mezzi di comunicazione che dalle istituzioni e, di conseguenza, dai cittadini.

In questa sede dovrà essere adottato il Quadro globale per la biodiversità post-2020, ossia una serie di impegni che i Paesi dovranno rispettare, individualmente e collettivamente, per mettere l’umanità sulla strada per raggiungere l’obiettivo di “vivere in armonia con la natura” entro il 2050.

Contrariamente al passato, questi impegni sono maggiormente vincolati al tempo e alla messa in pratica di azioni finalizzate a fermare la perdita di biodiversità. La bozza di accordo su cui si concentrerà il dibattito parla di 4 obiettivi da raggiungere entro il 2050 e che si concentrano su conservazione, uso sostenibile delle risorse, condivisione equa dei benefici derivanti dalla natura e capacità tecniche e finanziarie, a cui si aggiungono 22 target da centrare entro il 2030 e che si basano su obiettivi più precisi come l’espansione delle aree protette e la riduzione dell’inquinamento.

A fare da sfondo ai negoziati è il concetto di nature positive, approvato e sostenuto da molteplici organizzazioni per la conservazione della natura, imprese e governi, che parte dal presupposto che non potremo mai risolvere i problemi di uguaglianza, povertà e accesso alle risorse se prima non ci adoperiamo per ripristinare la salute della biosfera. Per avere un mondo il cui bilancio naturale sia positivo sarà necessario arrivare a una perdita netta pari a zero a partire dal 2020, e invertire la curva che indica la perdita di biodiversità entro il 2030 rispetto al 2020.

Questo significa riconoscere che, per un periodo limitato di tempo, alcune specie continueranno a scomparire e gli ecosistemi perderanno di funzionalità, fino a un punto in cui la curva si fletterà in positivo grazie alla conservazione di aree chiave, alla salvaguardia degli ecosistemi, al ripristino di habitat e paesaggi e alla riduzione dei consumi e della produzione agricola e industriale.

L’obiettivo finale è il raggiungimento di una situazione tale per cui l’essere umano sarà finalmente in grado di vivere in armonia con la natura e riconoscerà di farne parte.

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