Diritti

Esiste un’estetica dell’attivismo?

L’attivismo è una pratica collettiva e trovarvi uno standard estetico pare impossibile. Eppure lo cerchiamo perché viviamo in un periodo storico in cui l’azione è sublimata dalla rappresentazione dell’azione in sé
Il corteo di protesta contro la visita a Napoli del Segretario del Pd, Enrico Letta, 19 settembre 2022. Circa 50 giovani del Collettivo universitario autorganizzato e dell'ex Opg si è mosso da Piazza Municipio dirigendosi, sotto lo sguardo delle forze dell'ordine, verso il luogo dell'incontro dem, alla Stazione Marittima
Il corteo di protesta contro la visita a Napoli del Segretario del Pd, Enrico Letta, 19 settembre 2022. Circa 50 giovani del Collettivo universitario autorganizzato e dell'ex Opg si è mosso da Piazza Municipio dirigendosi, sotto lo sguardo delle forze dell'ordine, verso il luogo dell'incontro dem, alla Stazione Marittima Credit: ANSA / Ciro Fusco
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23 ottobre 2022 Aggiornato alle 06:30

Al liceo, il professore di matematica e fisica mi chiamava l’assenteista del venerdì. Cascasse il mondo, ci fossero in programma verifiche importanti o meno, il venerdì saltavo la scuola per stare in manifestazione.

Non c’erano i Fridays for Future e protestavamo per tutto, tante volte senza nemmeno saperlo. Il mio banco, il sabato recuperava il suo uso.

Oggi mi chiedo, quale segno distintivo avessi se non l’azione dell’assenza che si montava in presenza in una piazza? Nessuno, mi rispondo.

Avevo uno zaino vecchio dei primi anni di liceo, scarpe All Star che si alternavano alle Etnies, abiti larghi un anno, attillatissimi un altro. I capelli neri, poi platino. Nulla differiva particolarmente me dal resto delle persone che ogni giorno, salvo verifiche davvero difficili in programma, oltrepassava i cancelli della scuola. Non avevo nemmeno il piercing al naso, quello è arrivato dopo nell’autonomia dell’Università.

Eppure, mentre scrivo mi ritrovo con l’orecchio teso verso una conversazione non mia, come spesso accade quando si sceglie come luogo di lavoro una caffetteria. Le mie spalle chiudono lo spazio, ma non i suoni, che mi arrivano dal tavolo accanto e compongono fatti che proprio non mi riguardano.

Un team marketing di una notissima azienda che produce alimenti vegetali sta discutendo un pitch pubblicitario da presentare in sede. Il parlante descrive le immagini che vede nella nuova pubblicità a tema, parla di boomers, di giovani, di cambiamento.

Appare lo spettro di Instagram per fare campagna sui social, per bene. Ciò che strappa la mia attenzione al suo lavoro è una frase specifica: «poi inseriamo delle persone vestite come attivisti». Mi guardo la felpa, vecchia di tre anni almeno. Penso a G. con i capelli rosa, a M. sempre vestita di nero che mi racconta di Malm e Foucault, a un’altra persona G. che sorride sempre, fortissimo. S. che da un palco spiega con pazienza cosa sono tre mesi in mare a segnalare abusi e pesca illegale.

Mi scorre davanti l’immagine dell’attivista iraniana Rayhane Tabrizi, che canta in farsi per unire Milano a Teheran. Penso aə compagnə di lotta antispecista e femminista, mi chiedo dove stia il punto in comune che potrebbe definire un aspetto specifico. Rincorro le memorie dello sciopero globale per il clima, le persone in piazza, la mia amica C. con il marsupio a tracolla, L. con un cartello contro gli allevamenti, una persona con il volto tinto come la Terra per ricordare su cosa stiamo e perché stiamo, F. che stanca da quando si sentiva costretta a farlo non trucca mai la sua pelle e ricorda ai bianchi che la lotta per il clima non è di proprietà.

Penso al viso di Marielle Franco, Berta Caceres, Bell Hooks, Simone De Beauvoir, alle persone di Ultima Generazione di cui M. mi parla sempre, ai membri di XR, alla folla dei Fridays, a Non Una Di Meno e alle risate determinate delle persone del collettivo Fango. Mi fermo e mi domando, cos’è l’estetica dell’attivismo, perché io proprio non la vedo.

L’attivismo è una pratica così collettiva e composita che trovare uno standard pare impossibile.

Eppure una ricerca di canone esiste, il cervello cerca schemi, ma il marketing anche di più e quando non li trova, li inventa. Così spostando l’asse, si vede che un’estetica, volenti o nolenti c’è e sta sui social tanto quando nelle chiacchiere. È uno standard proiettato, la presenza sul tema giusto al momento giusto, un hashtag per esserci, ma più di tutto per essere visti, una storia ben confezionata che ricorda all’utente che, tra un filtro e una scopiazzata, @taldeitali è attivista.

L’azione è stata snellita in proiezione e le aziende osservano con cura.

La performance è precisa, indossare l’aspetto giusto al momento giusto, dirsi più che fare l’elemento centrale.

Non stare ai banchetti o nelle proteste, ma davanti a loro, non raccogliere firme o devolvere il proprio tempo, ma essere il volto di una campagna, non avere nemmeno troppo a cuore il tema cruciale, ma dire che è importantissimo se ci sono un orecchio o un cellulare con la ripresa attivata.

Succede dunque che l’azione, intesa proprio come prassi dell’attivismo, viene sublimata dall’estetica, dalla rappresentazione dell’azione in sé.

Sui social impazzano i commenti all’azione del gruppo di attivisti ambientali britannico Just Stop OIL, il lancio di una zuppa Heinz contro il vetro di un quadro di Van Gogh. Reels e post snocciolano la validità del gesto, rimproverano le modalità, addirittura - e questo me lo dice M. un mercoledì sera, sempre vestita di nero con Butler e Malm che le sgorgano nei discorsi - c’è chi investe di paternalistico pietismo l’atto, raccontandoci le attiviste come poverine.

Delle piccole, povere persone disperate che davvero non sapevano cosa fare, cancellando l’intenzione, la consapevolezza e la forza dell’azione. Tutti impegnati nel carosello del nostro ego, snoccioliamo opinioni sul metodo, dequalificandolo o giustificandolo, ma mai riconoscendo l’intento.

Senza vedere quanto la rottura serva a indicare il problema dell’abitudine, senza cogliere il distacco che il gesto (il simbolo che significa) ha preso dal sistema di potere, senza comprendere l’inversione assoluta creatasi portando la paura della distruzione nello spazio della contemplazione di ciò che è stato creato.

Ed ecco dove sta la gabbia dell’estetica dell’attivismo, non solo nell’uso dell’idea di un attivista ideale a scopo commerciale, ma anche nell’incapacità strutturale di vedere l’attivismo stesso da cui la ricerca di uno standard riproducibile deriva.

Impegnati a guardare la mano vediamo con indignazione verso cosa è stata lanciata la zuppa, ma non siamo in grado, collettivamente, di osservare il simbolismo dell’azione. Siamo persi nello spettacolo, al punto da non voler nemmeno più cogliere il messaggio, la morale della favola che si perde nelle nostre personalissime opinioni sulla qualità della recitazione.

Il filosofo Slavoj Žižek ci accusa, a ragione, di vivere nell’illusione di abitare una società post-ideologica, una storiella che ci permette di ignorare la nostra vera ideologia: il cinismo. Un cinismo autoreferenziale, acuito dall’atomizzazione di mercato e che ci fa dubitare di tutto, sempre e comunque, tranne che della nostra convinzione di essere al di sopra di ogni convinzione.

E dunque non sorprende che osservando Just Stop OIL e Ultima Generazione, siamo tutti presi a voler dire la nostra senza considerare chi l’azione l’ha compresa e compiuta. Dopotutto, per essere riconosciuti attivisti ciò che conta è là conformità a una precisa linea, l’adesione a quell’ intreccio di fattori accettabili dal gusto condiviso. La frattura tra l’estetica e l’azione è assoluta, perché l’azione è volutamente contro sistemica, inaccettabile persino. Tutto il resto è marketing.

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