Ambiente

Chi era Bruno Latour, filosofo del climate change

È mancato ieri a Parigi per un tumore. Tra i temi prediletti nelle sue opere, l’ecologia
Credit: Dorothea Tuch
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10 ottobre 2022 Aggiornato alle 20:15

Una vita passata a studiare la filosofia della scienza. Con uno sguardo fisso sull’ambiente. Bruno Latour è morto ieri all’età di 75 anni, a Parigi, a causa di un tumore pancreatico.

Considerato uno dei filosofi francesi più influenti e iconoclasti, ha analizzato come l’umanità percepisce l’emergenza climatica, ottenendo elogi, attenzione in tutto il mondo, oltre a diversi premi (nel 2013 ha vinto il premio Holberg, noto come il Nobel delle scienze umane). L’importanza del suo contributo è stata riconosciuta anche dal presidente francese Emmanuel Macron che su Twitter ha affermato che “i pensieri e gli scritti di Latour continueranno a ispirare nuove connessioni con il mondo”.

Nato nel 1947 in una famiglia agiata di viticoltori della Borgogna, Latour ha conseguito un dottorato di ricerca in filosofia alla Université de Tours, prima di dedicarsi all’antropologia, intraprendendo studi sul campo in Costa d’Avorio e in California.

I suoi libri più importanti, Vita di laboratorio (1979), La scienza in azione (1987) e Non siamo mai stati moderni (1991), offrono una visione innovativa, come lui stesso afferma, «sia della storia del coinvolgimento degli esseri umani nella creazione di fatti scientifici, sia del coinvolgimento delle scienze nella creazione della storia umana».

La sua carriera è stata costellata anche di scontri accademici. A metà degli anni Novanta ci furono accesi dibattiti tra i “realisti”, che credevano che i fatti fossero completamente oggettivi, e i “costruttivisti sociali”, come Latour, che sostenevano che i fatti fossero creazioni degli scienziati.

Ma la sua vita non ha avuto al centro solo le diatribe accademiche: la critica al modello capitalista e la lotta per l’ambiente sono tra i suoi temi più trattati. In uno dei suoi ultimi libri. Tracciare la rotta: Come orientarsi in politica, denunciava il legame tra deregulation, disuguaglianze e negazione del cambiamento climatico. «Sono 3 fenomeni che sono iniziati nello stesso periodo storico: gli anni Ottanta reaganiani», raccontava nel 2018 al Corriere della Sera.

Sempre nello stesso libro spiegava l’importanza di tornare a usare il termine “terrestre”: “Il terrestre oggi è un misto di vecchio e nuovo. Da una parte rimane legato alla sua identità, alla sua Terra, dall’altra si apre all’innovazione tecnologica. È venuto meno il tempo del ‘globalismo’, è ora di tornare al terrestre”.

Ripensare il nostro mondo è stato un punto fermo anche delle sue riflessioni sul Covid. Nel 2020 aveva detto all’Observer: «Ciò di cui abbiamo bisogno non è solo modificare il sistema di produzione, ma uscirne del tutto. Dobbiamo ricordare che l’idea di inquadrare tutto in termini di economia è una novità nella storia dell’umanità. La pandemia ci ha dimostrato che l’economia è un modo molto ristretto e limitato di organizzare la vita e di decidere chi è importante e chi no».

Frenare, decelerare, capire dove atterrare dopo la pandemia. Sono temi che ritornano anche nel suo libro Dove mi trovo? Lezioni di confinamento per i terrestri in cui Latour definiva provocatoriamente il lockdown “liberatorio” in quanto capace di farci uscire dal loop “accelerato” delle nostre vite. Per compiere questa rivoluzione, guardava con ottimismo all’Europa: «C’è una nuova vitalità nel nostro continente ed è qui che voglio atterrare». Da vero terrestre europeo.

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