Diritti

Australia: più voce ai nativi in Parlamento?

Il Paese sta pianificando un referendum per il 2023: in caso di successo, verrebbe creato un gruppo consultivo del governo formato da leader aborigeni. Ma non tutti sono d’accordo
Il primo ministro australiano Anthony Albanese (al centro), eletto a maggio, ha dichiarato che il referendum potrebbe svolgersi già nel luglio del prossimo anno.
Il primo ministro australiano Anthony Albanese (al centro), eletto a maggio, ha dichiarato che il referendum potrebbe svolgersi già nel luglio del prossimo anno. Credit: AFP
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
10 ottobre 2022 Aggiornato alle 11:00

L’Australia si prepara al referendum del 2023 in cui verrà chiesto ai cittadini se sia giusto che i popoli nativi siano permanentemente rappresentati nel governo. Se dovesse passare il sì, verrebbe costituzionalmente sancito un gruppo consultivo del governo composto da leader aborigeni e delle isole dello Stretto di Torres.

”È tempo di porre la questione del riconoscimento costituzionale indigeno agli elettori australiani - spiega il sito ufficiale della consultazione - sapendo che qualsiasi cambiamento è reso significativo solo attraverso una voce in Parlamento”. Come spiega Al Jazeera, si tratterebbe non solo del primo riconoscimento dei gruppi autoctoni nella Costituzione australiana, ma anche della rettifica della storica esclusione delle popolazioni indigene dai processi parlamentari. Non c’è ancora una data precisa, ma il primo ministro Anthony Albanese si è impegnato a tenerlo tra luglio 2023 e giugno 2024.

Il premier, in carica da quest’anno, ha reso nota la bozza del testo della proposta di modifica costituzionale, insieme alla bozza del quesito da sottoporre al pubblico australiano, in occasione del Garma Festival, il più grande raduno culturale indigeno dell’Australia, che tradizionalmente si svolge nel nord-est di Arnhem Land, nell’estremo nord del Paese. Spesso è un’occasione in cui i governi in carica fanno annunci sulla politica.

La ministra per gli Affari indigeni Linda Burney ha annunciato la costituzione di un “gruppo di lavoro” composto da importanti leader nativi per portare avanti il processo referendario: «Possiamo assicurarci di elevare il tenore di vita delle persone delle First Nations (termine che si riferisce alle popolazioni indigene, ndr) di questo Paese», aveva affermato ad agosto. A Al Jazeera Burney ha descritto il Voice to Parliament come «un’opportunità unica per una generazione di apportare i tanto necessari cambiamenti strutturali che condurranno a miglioramenti nella vita degli aborigeni e degli abitanti delle isole dello Stretto di Torres». Con un posto in Parlamento, avrebbero «voce in capitolo sulle questioni e sulle politiche che li riguardano» e questo spingerebbe i futuri governi a elaborare «politiche migliori e più informate che facciano la differenza».

I gruppi autoctoni in Australia, che rappresentano meno del 3% della popolazione, soffrono di grandi disuguaglianze rispetto alla popolazione non indigena: costituiscono più di un quarto della popolazione carceraria - molti per reati minori - e circa un terzo di loro vive al di sotto della soglia di povertà.

Non è la prima volta che si parla di Voice to Parliament: la promozione è iniziata quando l’ex prima ministra Julia Gillard ha istituito un gruppo di esperti nel 2010 per promuovere il riconoscimento delle popolazioni indigene australiane nella Costituzione del Paese. Nel 2017, poi, la Dichiarazione di Uluru ha illustrato nei dettagli la proposta, ma l’esponente della destra Scott Morrison, predecessore di Albanese, si è rifiutato di sostenerla.

Non tutti, però, credono che questa sia la strada giusta da percorrere, neanche gli stessi nativi australiani: la senatrice Lidia Thorpe, che ha origini Djab Wurrung, Gunnai e Gunditjmara ed è la rappresentante del partito di sinistra dei Verdi, ha dichiarato a Al Jazeera che l’Australia dovrebbe dare priorità a un processo che garantisca che più persone conoscano il passato e il trattamento riservato agli aborigeni: «Abbiamo bisogno di una Commissione nazionale per la verità e la giustizia perché questa nazione non conosce la propria storia».

A differenza di Paesi come la Nuova Zelanda e il Canada, l’Australia non ha mai avuto un processo di negoziazione con le popolazioni indigene. Il Paese è stato colonizzato dagli inglesi come se fosse una terra nullius, un termine giuridico latino che significa “terra che non appartiene a nessuno”. La recente scomparsa della regina Elisabetta II ha riacceso le discussioni sulla sovranità. Ad agosto Thorpe, durante il suo giuramento in Parlamento, l’aveva definita una «colonizzatrice» e il suo gesto aveva fatto il giro del mondo.

Secondo la legge australiana, la Costituzione nazionale può essere emendata solo da un referendum. Fino a oggi, però, su 44 proposte presentate in 19 referendum, solo 8 sono state approvate dal voto popolare: il più riuscito fu quello del 1967 sui diritti dei gruppi indigeni. Gli australiani votarono a stragrande maggioranza a favore di un emendamento costituzionale che prevedeva il conteggio degli nativi nel censimento e il potere di emanare leggi per gli indigeni da parte del governo federale e non solo delle amministrazioni statali.

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