Futuro

Cellulare alla mano, siamo diventatə (quasi) cyborg

Le protesi digitali sanno calcolare i battiti del cuore e le intelligenze artificiali accendono le luci di casa. Possiamo vivere senza smartphone?
Credit: Icons8 Team
Tempo di lettura 6 min lettura
9 ottobre 2022 Aggiornato alle 06:30

Siamo inconsapevolmente cyborg. Sacchi organici, di liquidi e flussi, connessi a una parte digitale e automatizzata. Non tuttə, non ancora, ma circa 6 miliardi di persone - oltre la metà della popolazione umana vivente - è un cyborg inconsapevole. Gli innesti digitali ci paiono distaccati, addirittura rimovibili, eppure sono propaggini oramai quotidiane, talmente pervasive da essersi connesse alla nostra costruzione identitaria ed esperienziale.

Consumiamo, viviamo e godiamo tramite la protesi digitale, attivata da dita veloci abituate al peso e alla forma della componente prima: lo smartphone. Da esso si diramano gli altri organi, in connessione fisica ma più spesso mediante tecnologia wireless, quasi avessero tagliato un cordone ombelicale e fossero pronti a esistere in frazioni.

Le cuffiette senza filo, per esempio, che possono - tra le altre cose - isolarci nel silenzio, cancellare la cacofonia sociale, il clangore della metro, il nostro senso uditivo dallo spazio attorno a noi. Appena accennate, quasi un gioiello, ci distinguono e al tempo stesso rendono parte di una comunità capace di selezionare cosa sentire, quando e come.

Al polso è allacciata la radice che misura il nostro stare, i battiti e i loro salti imprecisi, il respiro e le sue aritmie, le distanze percorse e le strade scelte. Ci chiama allo schermo, ci invita a guardare e vederci un universo le cui galassie sono stimoli derivati da frammenti di vite e misurazioni altrui. Contano persino i minuti che trascorriamo “lontano” da loro.

Perfino i cani e gatti li infiliamo nel database delle nostre vite. Non osiamo più giocare con loro in presenza, ma ricorriamo alla registrazione simultanea, inquadriamo la zampata buffa, un’espressione così canina da sembrare umana, lo scetticismo della creatura di pelo e che suo malgrado si trova a fissare l’occhio della fotocamera digitale più che quello del padrone.

E nello smartphone, tra le migliaia di foto di figliə e nipoti - un database che nessunə avrà mai il tempo fisico di guardare nella sua interezza - e gli impegni condivisi tra il calendario e l’account email, riposano e si ingrossano le statistiche del consumo di nicotina, integrate grazie al monitoraggio delle sigarette elettroniche smart, acquistabili per 39,90 euro con tanto di ricarica a scelta, così intelligenti da associarsi con l’iPhone dell’utente. E calcolare quanto l’acquirente possa consumare in prospettiva e come incentivare tale effetto.

La sfera intima, il cuore delle cose, è così esposta da essere codificata. Le piccole intelligenze artificiali sparpagliate per la casa ci assistono, mentre parlano tra di loro. Le dimensioni della nostra abitazione, il percorribile che dovrebbe stare tra noi, il catasto e chi ha venduto o affittato la casa, viene incrociato con la quantità di ostacoli - i mobili - contro cui gli aspirapolvere intelligenti collidono ogni tanto. E le liste della spesa dettate, come pure gli acquisti e gli abbonamenti automatici, compongono la geografia dei nostri gusti, dei nostri interessi e della cultura che sfogliamo.

Gli e-reader calcolano il tempo che impieghiamo a leggere e ce lo comunicano. E così, sottraiamo tempo alla lettura, andando laddove possiamo finire in fretta e scoprire in poche ore il lieto fine. Nella misurabilità del testo eBook si infila il numero di pubblicità che l’utente potrà sorbirsi a ogni attivazione, seguito a ruota dai consigli di lettura. Liberi di leggere, ma solo in base a ciò che la somma delle somiglianze di categoria fa presagire come nostro interesse. Siamo statə compartimentalizzatə in una scatola di fruizione in cui convergono ciò che siamo, anagrafica, gusti e potere d’acquisto. Da ciò che si sa di noi viene derivato ciò che potrebbe interessare chi ci è affine e viceversa. Le nostre affinità, sono un match fatto al computer.

Non sappiamo muoverci senza che un localizzatore ci indichi la strada, e certo ciò appare normale in assenza di impianto corneo con puntatore come vorrebbe la letteratura di genere, ma nondimeno è testimone di quanto le nostre vite siano, inconsapevolmente, connesse a un dispositivo digitale di ottimizzazione e facilitazione. Non impiantato, ma indossato o incastrato nel percorso tra mani, tasche e borse.

E siamo noi a usare lui, tanto quanto lui usa noi. Ci profila, abilmente, tratteggiando stati emotivi e incrociandoli con acquisti e scelte, migliorando il tempismo delle offerte che, sempre più spesso, ci raggiungono proprio quando ci appaiono più irrinunciabili. È un arto aggiunto, e se ben osserviamo i nostri movimenti sono coordinati alla sua presenza senza soluzione di continuità. Un tutt’uno, persino con il lavoro.

Ranking di popolarità e di interesse suscitato da portfolio digitali fanno curriculum assorbendo quel personale che vogliamo sia pubblico con una condivisione. Nelle foto, persino, arriviamo a cambiarci i connotati, creando un io digitale alterato - che per moltə è una miglioria, un noi 2.0 - che viene visto e immaginato, costruito come soggetto nelle menti degli altri passati su quella foto. Possiamo essere sia l’io di carne che quello di pixel mutati, dopotutto siamo diventati in parte digitali.

Prima di parlare, scrivere o premere invio a un messaggio o una mail, interpelliamo internet. Ci sovviene sotto forma di barra e ci restituisce un sinonimo, un significato. Addirittura, si carica il peso del testo intero e lo analizza indicando gli errori e perfino le correzioni.

Possiamo separarci fisicamente dalla parte cibernetica, ma tendiamo a farlo solo in occasioni ridotte e più per necessità della parte che nostra: quando deve essere caricato, lo smartphone perde la continuità con il nostro corpo. Eppure, anche inconsciamente, lo cerchiamo, muoviamo mani leggere come in cerca di un arto fantasma. Neil Harbisson, artista e cyborg provvisto di un’antenna capace di comunicare i colori in forma di suono al proprio cervello, identifica l’identità cyborg come quel momento in cui “la parte cibernetica non è più esterna ma parte del nostro corpo o dei nostri sensi”.

La distanza fisica però può assumere tante forme e certamente quella tra smartphone e corpo non è mai sufficiente, anzi. Si tratta di un contatto semi costante, insistente, per cui disponiamo di cervelli esterni da attivare a comando, ma non solo. Come detto, Internet delle Cose - quella porzione di spazio digitale in cui gli oggetti elettronici assumono la condizione di soggetti comunicando tra loro - fa parte della nostra vita quotidiana.

E ancora, le applicazioni che dovrebbero - più propriamente potrebbero - ottimizzarci la vita nel senso di produrre un miglioramento, restituendoci tempo e possibilità, più spesso si concentrano per ottimizzare noi in quanto consumatorə (di beni, politica e risorse), lavorando su una funzione attribuita a questi corpi meccanici che abitiamo.

Ed ora, la vera domanda, siamo cyborg o lo stiamo diventando? Ebbene, quantə saprebbero sopravvivere senza il loro nuovo organo digitale esterno?

Essenzialmente pochə, forse nessunə. Perché in un mondo di innesti digitali chi non si connette alla rete è perdutə, dimenticatə. Siamo, inconsapevolmente, cyborg.

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