Ambiente

La guerra uccide la transizione ecologica

E per diverse ragioni. Non a caso, ricorrere alle rinnovabili eliminerebbe una delle principali fonti di conflitti: il gas
Credit: Jens Büttner/dpa
Credit: Jens Büttner/dpa
Tempo di lettura 7 min lettura
7 ottobre 2022 Aggiornato alle 06:30

La guerra scatenata dalla invasione russa dell’Ucraina influisce pesantemente sulla transizione ecologica, per numerose ragioni.

La prima è che il riscaldamento globale è un fenomeno, per l’appunto, globale, con cause globali, sia pure con responsabilità differenziate. Per contrastarlo occorre che lo si faccia tutti insieme.

Lo stesso vale per la lotta alla perdita di biodiversità, quella che ci porta alla sesta estinzione.

Dobbiamo essere tutti concordi. Tutti i Paesi del mondo.

Se l’Europa e, miracolo, gli Stati Uniti vanno a emissioni zero e tutto il resto del mondo no, il riscaldamento globale non si ferma.

Quindi, la strada verso la sostenibilità non è compatibile con le guerre che, però, hanno una concausa che può essere rimossa per evitare o rendere meno probabili conflitti futuri.

Infatti, come la maggior parte di quelle in Medio Oriente, anche questa guerra è, se non scatenata, favorita dalla dipendenza del nostro sistema economico dalle fonti fossili.

Se non fossimo stati strangolati dal gas russo, probabilmente a Putin non sarebbe neanche venuto in mente di invadere l’Ucraina. Da qui il primo legame fra transizione ecologica e guerra: ricorrere alle sole fonti rinnovabili disinnesca quella che si è rivelata una potente causa di conflitti.

La seconda connessione nasce dal fatto che un sistema energetico basato sulle fonti rinnovabili (che per varie ragioni sono prevalentemente sole e vento) rende inefficaci alcune azioni belliche di solito decisive. Infatti, mentre una pipeline o un deposito di gas o petrolio si possono distruggere o una centrale nucleare si può danneggiare, mettendo in ginocchio vaste porzioni di territorio, colpendo un impianto solare o eolico si colpisce solo una piccolissima parte di territorio, quella servita da quell’impianto. La resilienza di un Paese aumenta enormemente, ed è quindi più difficile da sconfiggere, e questo fa da deterrente all’insorgere di conflitti.

La terza ragione della connessione deriva da un aspetto che viene di solito ignorato: bombardamenti, distruzioni, costruzione di armi, aumentano enormemente le emissioni di gas serra, e non, come si potrebbe credere, per il fumo delle esplosioni, ma per ben altro, per le emissioni incorporate, cioè le emissioni che sono derivate da tutto il processo di costruzione dell’arma, dall’estrazione del minerale fino alla sua consegna in mano del soldato, del pilota, del marinaio. Viene da tremare pensando tutti gli obici, bombe, razzi, droni, proiettili, con il loro fardello di emissioni incorporate, che vengono destinati alla propria distruzione, oltre alla distruzione che causano. Viene da tremare per ogni carcassa di carro armato, di cannone, di camion che si vede nei filmati: tutti contributi al riscaldamento globale e alla perdita di biodiversità.

Ecco che l’industria degli armamenti si rivela doppiamente inaccettabile: per il fine diretto che ha, uccidere, e per il contributo a rendere il nostro pianeta invivibile a causa della produzione di gas serra e della estrazione di risorse naturali. Uccide gli essere umani e il pianeta di cui questi esseri fanno parte. E non solo. Per ricostituire ciò che è distrutto bisogna estrarre nuove risorse naturali: rame, acciaio, cemento, materiali vari che costituiscono le infrastrutture distrutte. Con il danno ambientale che ne consegue, che si aggiunge a quello locale causato dalla devastazione di raccolti, di aree naturali, quindi di biodiversità.

Infine, i sabotaggi alle infrastrutture energetiche, come quello ai Nord Stream, che ha causata la fuga di enormi quantità di metano, gas serra 30 volte più potente della CO2. Ma si può fare altro, basta ricordare i pozzi incendiati in Kuwait alcune guerre fa.

La quarta nasce dal fatto che la guerra in Ucraina mette a nudo intrecci nascosti. Uno è quello che lega gas russo, cereali russi e ucraini e fertilizzanti azotati russi. Infatti, il motivo per cui la Russia è un importante fornitore di fertilizzanti azotati dipende dal fatto che questi si fanno sintetizzando l’azoto atmosferico e l’idrogeno, prodotto col metano ed emettendo CO2. Il gas costa poco ai russi, e quindi poco costa il loro fertilizzante. Per questo lo compriamo noi, e lo comprano gli ucraini, per produrre i loro cereali, lo compra tutto il mondo. Costa molto però al cambiamento climatico perché il processo di produzione causa immissioni di gas serra in atmosfera. La mancanza di fertilizzanti mette in crisi non tanto i Paesi ricchi, che possono permettersi di comprarlo più caro altrove (da qui una delle ragioni dell’aumento di prezzo degli alimentari). Ma il prezzo più alto lo pagano i Paesi poveri, che il fertilizzante proprio non possono più permetterselo, con conseguente caduta a picco della produzione alimentare locale e aumento insostenibile del costo del cibo importato; c’è quindi da aspettarsi in incremento del flusso di migranti.

D’altra parte, la carenza di fertilizzanti azotati, e il conseguente loro aumento di prezzo, dovrebbe indurre prima di tutto i Paesi ricchi ad accelerare le pratiche di coltivazione basate sull’agroecologia, che riduce al minimo la necessità di fertilizzanti artificiali e di pesticidi. Infatti la transizione dall’agricoltura industriale a quella basata sulle pratiche agroecologiche è l’altro pilastro, oltre alla transizione dalle fonti fossili alle rinnovabili, della transizione ecologica, a causa del forte impatto dell’attuale modo di produzione del cibo tanto sul cambiamento climatico quanto sulla perdita di biodiversità.

Dunque, per preservare la transizione ecologica nelle condizioni in cui ci troviamo, le azioni base da portare avanti sono: aumentare rapidamente la quota di rinnovabili nel mix energetico e favorire l’agroecologia, con opportune misure di incentivazione. E invece che succede nel nostro Paese?

Per garantire la necessaria diversificazione degli approvvigionamenti di gas il quadro attuale è: forti investimenti nelle infrastrutture del gas, investimenti che per avere un ritorno richiedono il funzionamento di queste infrastrutture per almeno 20 anni (cioè richiedono che si usi massicciamente il gas per almeno 20 anni), mandando all’aria gli obiettivi di decarbonizzazione al 2030 e peggio al 2050.

Ma c’è di più: analoghi grossi investimenti devono fare i Paesi produttori, in nuove perforazioni, nuovi gasdotti dal pozzo alla costa, nuovi gassificatori, nuove navi metaniere, e anche loro hanno il problema del ritorno dell’investimento. Insomma, sembra proprio che le compagnie del fossile l’avranno vinta per almeno i prossimi 20 anni, spostando la neutralità carbonica dell’Europa, e non solo dell’Europa molto oltre il 2050. Usano la guerra come leva per scardinare il processo di decarbonizzazione.

Non possiamo stare a guardare senza reagire. Se è inevitabile che si faccia di tutto per non restare al freddo e al buio e non fermare le attività produttive, bisogna nello stesso tempo mettere nel conto che investimenti quali i rigassificatori, le nuove navi metaniere, nuovi pozzi in Africa e tutti gli altri occorrenti per tamponare l’emergenza sono assolutamente temporanei, da smantellare man mano che con la massima velocità aumenta la realizzazione di impianti solari, eolici e di conversione energetica di biomassa.

Occorre che il governo abbia un piano preciso sul breve, medio e lungo termine. Non abbiamo avuto dal governo Draghi il nuovo PNIEC, il piano per l’energia e il clima, aggiornato ai nuovi obiettivi definiti dalla Commissione Europea: molto male. Peggio sarebbe se il nuovo PNIEC, aggiornato anche alla situazione determinatasi con la guerra in Ucraina, non fosse prodotto in tempi brevissimi dal nuovo governo.

Si tratta di un impegno prioritario, senza in nuovo PNIEC saremo sempre nelle mani delle compagnie Oil&Gas, e all’oscuro dei loro veri progetti, che certamente non sono in linea con gli interessi nazionali.

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