Diritti

Siamo donne (non ragazze)

Trattare nei media e nel discorso pubblico le donne adulte come bambine è una scelta politica: serve a controllarle meglio
Credit: Valentine Lacoste
Tempo di lettura 5 min lettura
5 ottobre 2022 Aggiornato alle 06:30

C’è un tormentone del 1991 che non ha retto benissimo l’impatto del tempo, ma chi c’era se lo ricorda. Sabrina Salerno, 23 anni, e Jo Squillo, 29, si presentano a Sanremo con un brano che racconta l’Italia che comincia a fare i conti con il vuoto lasciato dal rampantismo degli anni ’80 e con il nuovo protagonismo femminile sospinto dalla terza ondata dei femminismi. Sono giovani, sono belle, sono scosciate e cantano: “Siamo donne, oltre le gambe c’è di più”.

“Donne”, non ragazze, donne. Da quel motivetto sono passati più di trent’anni e almeno un’altra ondata di femminismo, e ancora dobbiamo fare i conti con la rocciosa abitudine dei media a chiamarci “ragazze” e a raccontarci come se fossimo bambine, quando non è possibile ridurci ad altre funzioni familiari. Di Maria Sole Ferrieri Caputi, prima arbitra di Serie A, ho dovuto cercare il cognome in rete. Il nome lo ricordavo: è stato l’unica parte della sua identità ad avere spazio nei titoli dei giornali che annunciavano l’avvio della sua carriera in un mondo dominato dagli uomini. “Maria Sole”, così, come se fosse la cugina o l’amica dei giornalisti. Non c’è da stupirsi se su questo suo esordio sono poi fiorite le battute a base di cartellini di colori vezzosi, richiami ai giocatori motivati con “Niente”, ritardi nell’inizio delle partite e altre amenità che devono sembrare ancora molto spiritose a chi trova disturbante che una donna entri nell’ambiente calcistico in veste professionale.

Siamo “ragazze” ben oltre la soglia di accettabilità della definizione. Se sei adulta e indipendente non sei una ragazza, sei una donna o una giovane donna: bisognerebbe dirlo a chi ha lanciato la notizia dell’arresto di Alessia Piperno, travel blogger detenuta in Iran per motivi ancora da appurare. Piperno ha trent’anni, non quindici, non diciotto: trenta, appena compiuti. Chiamarla “ragazza” non è solo inaccurato, è anche un modo per segnalare che la si ritiene immatura, avventata. Una che se l’è cercata, insomma: e infatti, come sempre, sui social è già partita la sassaiola. Se fosse stata a casa non le sarebbe successo niente. Le donne, le ragazze, le femmine devono stare a casa, non pretendere di girare il mondo, conoscerlo, raccontarlo. A casa, mute, a svolgere compiti adatti alla loro natura.

“Ragazza” sarebbe, a 37 anni, anche Elly Schlein, alla quale non bastano né l’anagrafe né la carriera politica pluriennale per essere trattata con un minimo di rispetto dai suoi pari. Nello specifico qui parliamo di Matteo Renzi, quello che appunto, l’ha definita “una brava ragazza” durante un’intervista a La7. Non è difficile rintracciare nell’espressione utilizzata da Renzi l’inconfondibile paternalismo che da sempre contraddistingue il rapporto che ha con le donne nel suo stesso partito (un “grande partito femminista”, come diceva all’atto della sua fondazione: mi permetto di dissentire). Difficile dimenticarsi la famosa conferenza stampa con le ministre di Italia Viva dimissionarie, mute a fianco del capo che parlava al posto loro.

L’accondiscendenza è il registro principale di qualsiasi discorso sulla presenza femminile nell’area politica della sinistra: se non sei una “ragazza” sei comunque definita dall’appartenenza a un leader o a un capocorrente, e scordati di poter affermare una leadership autonoma. Da meno una settimana si è iniziato a parlare di Schlein come possibile nuova segretaria del Partito Democratico (senza che lei abbia manifestato alcuna intenzione di candidarsi, beninteso), e sono già partite le veline per proporre un ticket con Stefano Bonaccini. Non sia mai che una donna corra da sola. Eresia. Orrore. Le donne vanno contenute, appaiate, controllate: qualcuno si ricorda della candidatura in tandem di Anna Ascani e Roberto Giachetti alle ultime primarie del PD? No? E ci sarà un motivo.

Donne: quando non le puoi controllare, quando non servono o non sono funzionali alle logiche di mantenimento del potere, allora fai finta di non vederle. Ho spulciato un po’ di articoli sulle ormai davvero prossime elezioni regionali del Lazio: nessuno fa il nome di Marta Bonafoni, consigliera regionale nella giunta in carica, che ha lanciato la sua candidatura a governatrice la scorsa estate e sta chiedendo da tempo delle primarie allargate all’area di centro-sinistra, a cui partecipare insieme ai nomi – tutti! Maschi! Fatevi delle domande! – messi in campo dal PD. Bonafoni non è un’estranea, non è un’aliena, non arriva da un altro mondo: è una persona con una storia politica che l’ha vista spesso protagonista di iniziative importanti, una fra tutte il faticoso salvataggio della casa delle donne Lucha y Siesta di Roma, minacciata di sfratto dall’amministrazione Raggi e rilevata dalla Regione per mettere in sicurezza uno dei più grandi centri antiviolenza della città, oltre che un punto di riferimento culturale per il Tuscolano. A giudicare dalla stampa, sembra che questa candidatura non esista: o passi per la benedizione di un uomo, oppure sarai circondata dal silenzio.

Ci vogliono piccole, in tutti i sensi. Giovani, manipolabili, discrete. Non dobbiamo occupare spazio, meno che mai crearlo, viverlo, ridisegnarlo. Ragazze per sempre, perché delle donne adulte non sanno che farsene.

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